Un colpo di bisturi per svelare l'insolito: Focus su “Occhi senza volto”
- Andrea Brena
- 18 ott 2024
- Tempo di lettura: 7 min

Esistono film ipnotici, permeati da un'atmosfera di poesia pur mostrandoci apertamente orrore, onirici ma capaci di suscitare sensazioni epidermiche. “Occhi senza volto”, titolo originale “Les Yeux sans Visage” diretto da Georges Franju nel 1960, è una di quelle rare pellicole. Opera germinale del body horror, annoverabile anche nel filone gotico e fantascientifico o fantastico, gli echi da essa prodotti sono arrivati potentemente a influenzare titoli molto più attuali.
Franju, tra le altre cose co-fondatore della Cinématèque Française, analizza con molta precisione la definizione di “fantastico”, definendolo approfonditamente e delineando un parametro psicologico che può arrivare a scatenare non solo lo stupore, se non l'angoscia o il terrore stesso, premettendo che ciò che attira il suo interesse è l' “insolito” nella vita quotidiana.
“Ciò che fa paura è l'anormale. L'insolito è l'anormale, l'insolito non è nella forma, è nelle situazioni. È il bambino che passeggia di notte in un bosco, se è un uomo non ha paura, se è un bambino sì. Se si vede un tizio che passeggia per la campagna con un fucile da caccia sotto il braccio, è un cacciatore. Lo stesso tizio che passeggia sugli Champs Elysées con un fucile sottobraccio non è sicuramente un cacciatore. Il personaggio fa paura perché si trova in una determinata situazione e da qui nasce l'angoscia. E... l'angoscia nata dall'insolito, nasce sempre dalla situazione. Si rivela. La paura... cioé il fantastico si crea, ma l'insolito si rivela, di solito nella quotidianità”[1].
La trama di “Occhi senza volto” tratta di un chirurgo, il dottor Génessier (Pierre Brasseur), che si occupa di chirurgia estetica e di ricerca nel campo di trapianti di tessuti. Vittima di un incidente stradale in cui la figlia Christiane (Edith Scob) è rimasta sfigurata in viso, il medico fa passare per deceduta la ragazza e con l'aiuto della sua assistente Louise (Alida Valli) sequestra e uccide altre giovani donne per recuperare la pelle del loro viso e restituirle l'aspetto di prima. I primi tentativi non hanno successo, finché non rapisce una donna ingaggiata dalla polizia per indagare sui casi di scomparsa. Christiane, ormai stanca dell'operato del padre, libera la donna, uccide Louise, lascia che il padre sia sbranato dai cani che usa come cavie e sparisce nella notte, con la maschera bianca che per tutto il film nasconde le deturpazioni del suo viso.
Il film è giunto in Italia censurato di una delle scene più interessanti: dopo il primo sequestro, il regista ci mostra l'intervento volto a rimuovere integralmente la pelle del viso della vittima, partendo dai tracciati a pennarello, passando per il taglio con bisturi, al distacco dell'epidermide con l'ausilio di pinze, fino a sollevare la maschera di tessuti asportati lasciandoci intravedere dietro di essa il devasto di muscoli scoperti sul viso operato. Potremmo definire questa sequenza come l'origine del body horror moderno.
In merito all' horror, Franju dichiarò che il miglior film dell'orrore mai visto fu, a suo parere, la pellicola medica del Prof. Thierry De Martel “Trepanation for Epileptic Seizures”. Il paziente è seduto e vigile e Franju descrive come il cranio sia in parte ingiallito dalla tintura di iodio, di come il medico esegua dei segni a pennarello sulla sua superficie, per poi incidere con il bisturi e il trapano. Mentre avviene ciò il soggetto sorride serenamente. Si arriva addirittura allo scoperchiamento della scatola cranica e alla cauterizzazione di alcune zone dell'encefalo. Il cervello non sente dolore, sostiene De Martel. La reazione degli spettatori a questo video fu violentissima, racconta Franju, perché non c'è condivisione della sofferenza. L'osservatore sente quasi un dolore fisico nell'osservare queste immagini, amplificato ancor più dall'impassibilità del soggetto operato.
Il regista Kim Ki-Duk ha certamente fatto riferimento allo stesso tipo di reazione in “Time” film del 2006 che comincia proprio con un esplicito video su un intervento di chirurgia estetica. Fulcro del film è l'ossessione di Seh-Hee, la convinzione che il fidanzato Ji-Woo si stia stancando di lei, che la porta a sottoporsi ad un intervento di ricostruzione del viso che la renda irriconoscibile, per poi riavvicinarsi all'uomo. Per assurdo finirà per diventare gelosa della sé stessa di prima.
Nelle sequenze precedenti all'intervento, il chirurgo mostra a Seh-Hee un video simile a quello che apre il film, in modo da dissuaderla, senza successo, a sottoporsi all'operazione. L'orrore che vediamo provare alla protagonista è molto simile a quello descritto da Franju sugli spettatori del video medico di De Martel. Lo stesso possiamo affermare di noi, che osserviamo tali scene provando un senso di sofferenza non condiviso dai pazienti in stato di anestesia.
David Cronenberg estremizza ancora di più tale sensazione, acuendola e assimilandola al piacere sessuale in “Crimes of the Future” del 2022. La chirurgia plastica e l'asportazione di strane forme tumorali, o la loro presentazione in spettacoli simili a performance di arte visiva, diventano una sorta di pornografia per gli spettatori che vi assistono. Emblematica la scena in cui Kristen Stewart si avvicina al protagonista Viggo Mortensen per sussurrargli all'orecchio “La chirurgia è il nuovo sesso... Vedevo Caprice tagliare te e volevo tu tagliassi me”. Ciò che il regista canadese sembra denunciare è un'assuefazione progressiva al sangue, ai bisturi, al dolore, coadiuvato dal proliferare di trasmissioni televisive che mostrano interventi estetici funzionali a makeover, fino al punto di percepire la manipolazione e lo smembramento del corpo come un atto erotico, attraente, desiderabile, proprio perché estremizzato oltre l'immaginario televisivo ormai comune ai più.
Un altro aspetto disturbante del film è la presenza costante della maschera di Christiane: un viso di porcellana che mantiene visibili solo gli occhi. Tale mascheramento produce nello spettatore una sensazione di disagio, descritta come “valle perturbante” o uncanny valley (Mori 1970): la visione di fisionomie antropomorfe quanto più somiglianti all'uomo, ma mancanti delle caratteristiche di familiarità di un volto vivente, provoca un crollo delle reazioni positive quanto più si allinea all'esposizione di corpi morti, generando repulsione e avversione. Questa teoria è una delle più utilizzate per spiegare fenomeni quali la pediofobia (paura delle bambole) o la coulrofobia (paura dei clown).
In aggiunta a questo bisogna sottolineare quanto ancestrale sia per lo sviluppo psicologico degli umani sin dalla prima infanzia il riconoscimento dei visi e delle espressioni collegate all'intenzionalità. In questo senso, il comportamento di Christiane ci resta alieno, imprevedibile, creando in noi una sorta di diffidenza ed ansia. Prendiamo come esempio il film tedesco “Good Night Mommy!” (Franz e Fiala, 2014), nel quale, una coppia di gemelli di nove anni, ritrovano la madre reduce da un intervento di chirurgia estetica e con il volto completamente bendato. Gradualmente i bambini, e con loro gli spettatori, iniziano a sospettare sempre più fortemente che la donna sotto i bendaggi non si davvero la madre dei bambini. La combinazione di gesti ambigui e della mancanza di riconoscimento visivo determina la convinzione che l'identità della donna non sia quella asserita. Tale espediente viene sfruttato anche nel già citato “Time”, in cui Kim Ki-Duk crea nei protagonisti e negli spettatori un senso di fortissima incertezza su connotati e visi bendati, innescando una situazione paranoica che porterà la protagonista ad impazzire, nel finale, e a lasciare noi spettatori nel dubbio di aver realmente riconosciuto o meno il protagonista maschile (a sua volta sottoposto ad un intervento di chirurgia plastica). L'impossibilità di riconoscere volti ed intenzione, unita allo straniamento legato a maschere o aspetti falsamente antropomorfi, è un elemento che mette in cortocircuito la nostra capacità spettatoriale di sospensione dell'incredulità, in altri termini ci porta istintivamente ad una tensione e ad un'angoscia molto simile a quella descritta da Franju nella sua definizione di insolito, bizzarro ed ambiguo.
Sotto l'aspetto prettamente tecnico di “Occhi senza Volto” è importante sottolineare la basilarità dell'apporto di Eugene Schüfftman, direttore della fotografia già di Fritz Lang in “Metropolis”. Il bianco e nero del film è contrastato e vivido, elemento fondamentale per Franju per la creazione del terrore: “...il cinema non lo vedo a colori. Sono molto più preso dai rapporti di tonalità che dai colori e penso che il colore distrugga le tonalità.[...]ma non amo nemmeno le tonalità, preferisco i contrasti, preferisco per esempio la tinta di quella che un tempo si chiamava pellicola ortocromatica alla tinta della pellicola pancromatica. La pellicola ortocromatica era innanzitutto molto più drammatica, le tonalità erano soppresse, per esempio il cielo si confondeva facilmente, era sempre chiaro, si confondeva facilmente con la terra. Era molto bella, la pellicola ortocromatica, ha un lato poetico, la si trova d'altra parte in tutti i film muti e appartiene già alle opere d'arte. […] Perché la nozione di terrore scompare subito con il colore, subito. Non si può far paura con il colore. Non credo. Secondo me il terrore è solo in bianco e nero, che ci volete fare se per esempio... che cos'è il terrore? È il buio e le tenebre a colori non esistono”[2].
La sceneggiatura fu scritta invece da due dei maggiori giallisti francesi Boileau e Narcejac, già autori di “I diabolici” e di “D'entre le morts” racconto da cui Hitchcock trasse il suo capolavoro “Vertigo” del 1958, nonostante la trama fosse tratta da un romanzo ben poco brillante scritto da Jean Redon. Infine le musiche ipnotiche e poetiche, furono composte da Maurice Jarre: indimenticabile nel finale la distorsione di “Theme Romantique”, che lascia presagire la follia di Christiane, ormai un fantasma pallido che aleggia tra gli alberi del parco della villa paterna.
Il film fu un insuccesso commerciale, sebbene rimase caro a registi e critici, venendo considerato oggi come il capostipite del genere horror insieme al coevo “Psycho” di Alfred Hitchcock.
Tale influenza si percepisce ancora oggi. Il thriller “La pelle che abito” diretto da Pedro Almodòvar 2011 è palesemente debitore della pellicola di Franju: tutta la prima parte, che descrive l'incidente della moglie del protagonista, la sua convalescenza e il suicidio, la figura stessa del Dott. Ledgard (Antonio Banderas), la maschera indossata da Vera, il retroscena criminoso sul rapimento e gli interventi svolti dal medico impazzito su Vincente, sembrano derivate da “Les Yeux sans Visage”.
Anche Leos Carax, nella sua opera metatestuale “Holy Motors” del 2012, in cui la stessa Edith Scob recita il ruolo di autista e unica vera spettatrice delle performances di Oscar (Denis Lavant), mentre lo accompagna premurosamente da una parte all'altra di Parigi. In questa pellicola, Carax mette in discussione lo status stesso di immagine cinematografica, in un mondo in cui siamo sempre più soggetti/oggetti di immagini che veri spettatori, in cui il cinema sembra destinato a morire o a frantumarsi in scene senza macchina da presa: nel finale, Edith Scob indossa nuovamente la maschera di “Occhi senza volto”, abbandona la limousine per tornare a casa. Diventa nuovamente Christiane, un paio di occhi privi di volto che si allontanano, fuori dal quadro dello schermo. Proprio come nel 1960.
“Occhi senza volto” resta forse ancora oggi l'esempio più folgorante di come l'orrore, l'angoscia, l'ambiguità possano essere declinati sotto forma di poesia cinematografica, rieccheggiando ancora nel cinema e nelle sue forme come solo i capolavori riescono a fare.
Andrea Brena
[1] Cinema, del nostro tempo, 1998, Editrice il Castoro, pp 76-77
[2] Cinema, del nostro tempo, 1998, Editrice il Castoro, pp 75-76
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