L'AMBIVALENZA DELL'IMMAGINE IN WIM WENDERS: FOCUS SU “FINO ALLA FINE DEL MONDO”
- Andrea Brena
- 12 gen
- Tempo di lettura: 13 min

Nella filmografia di Wim Wenders, “Fino alla fine del mondo” non è una delle opere considerate universalmente un “capolavoro”. C'è chi la ama molto, che ci legge contenuti filosofici e messaggi profondi sul mondo, la natura umana e un futuro non troppo distante dal nostro presente; altri invece lo considerano un film pretenzioso, poco coeso, mal recitato, troppo denso di informazioni.
La genesi stessa del film, uscito nel 1991, fa luce su molti aspetti citati dai detrattori e si rivela, in qualche modo, una storia che permette di indagare più approfonditamente sull'idea di regia e sulla visione personale del mondo del regista tedesco.
La trama del film si articola su tre generi principali: il road movie, la storia d'amore e la fantascienza. Tale commistione di tematiche e di storie può risultare da un lato spaesante, dall'altro trova una ragion d'essere nell'opera precedente di Wenders, che lavorò sulla sceneggiatura per ben dieci anni.
Questa peculiarità del racconto va letta e compresa in rapporto alle immagini di cui il film si compone: la fotografia dei luoghi attraverso cui Claire “danza intorno al mondo”, per citare una battuta del film, la sperimentazione quasi pittorica sull'immagine digitale per dare vita ai sogni e l'immagine assente, ossia tutta la parte che concerne al “presunto” disastro ambientale nucleare, che resta sempre fuori campo, suggerita da immagini diegetiche, ma mai mostrata o raccontata direttamente.
Il campo lungo: l'immagine itinerante di un mondo estetico e malato
Wenders, maestro nel road movie, nel creare immagini e storie di luoghi con una sapienza che pochi altri registi hanno dimostrato in questo genere, segue il viaggio della sua protagonista, Claire Tourneur, all'inseguimento di un uomo misterioso, Sam Farber, braccato dal governo americano che vuole impossessarsi di un misterioso dispositivo in grado di registrare immagini che potranno essere viste da persone cieche. Il macchinario è stato inventato dal padre di Farber, che sta cercando persone care alla madre, che ha perso la vista all'età di otto anni, per tornare in Australia dai genitori e completare l'esperimento, anche a costo di danneggiare la propria vista nel farlo.
Da Venezia a Parigi, da Berlino a Lisbona, da Mosca a Tokyo (passando per la Cina), fino a San Francisco ed infine nei canyon inesplorati dell'entroterra australiano, il vagare inquieto dei personaggi in cerca di immagini, è costellato dalla sublime capacità del regista di immergere il racconto in degli scenari spettacolari, come già aveva dimostrato in “Paris, Texas”, in “Alice nelle città”, in “Il cielo sopra Berlino”, prima di quest'opera (e come continuerà a fare anche in seguito con “Lisbon Story” e “Tokyo Ga”, ad esempio).
L'idea stessa di girare questo film nasce nel regista a seguito di un viaggio in Australia del 1978, in cui resta colpito dalla luce, dalla vastità, dal vuoto, dal rosso e dal cielo del luogo.
Entrando in contatto con le culture aborigene, con la loro arte e il loro rapporto con la terra, inizia ad interrogarsi su quanto diversa sia la concezione europea di aver “creato” il proprio ambiente, rispetto a quella di queste tribù che sentono di appartenere ed essere responsabili della propria terra, affidata loro dagli dei.
In questo senso, l'Australia diviene la meta di un viaggio attraverso storie e culture differenti, che negli anni il regista integra nel copione in seguito alle proprie esperienze umane e di filmaker, rendendo sempre più denso e complesso il corpus dell'opera. Questo luogo diviene anche fulcro etico della preoccupazione del regista per un futuro che immagina sempre più catastrofico, proprio a causa dell'uomo e della sua violenta interazione col pianeta, e scenario delle due storie d'amore che costituiscono la base del racconto filmico.
Il primo piano: sguardi imperfetti sulla ricerca di sé nei rapporti affettivi
Wenders ha immaginato “Fine alla fine del mondo” come una variazione di una delle sue opere preferite, l'”Odissea” di Omero: la sua protagonista, Claire, altri non è se non una rappresentazione di Penelope, moglie di Ulisse, che invece di attendere a Itaca il marito, tessendo la sua tela, lo rincorre nel suo peregrinare per il mondo. In questo senso, la donna non solo insegue il suo amore misterioso, lo accudisce, lo accompagna fino alla meta finale (preda sì di un amore, quanto di un'indeterminatezza interiore che la spinge a cercare “altro”, un qualcosa che determini e definisca la propria stessa esistenza), ma la coppia insegue la storia di altri due innamorati, i genitori di Sam.
Questa backstory, in cui Henry Farber scappa dalla Germania nazista e a Lisbona incontra la futura moglie Edith, cieca dall'infanzia, per andarsene con lei negli Stati Uniti e lì costruire una famiglia e il misterioso dispositivo che potrebbe permetterle di tornare a vedere le immagini da esso registrate, diventa la radice di una sorta di copione familiare, quando i genitori di Sam fuggono dal governo statunitense, intenzionato ad appropriarsi dell'invenzione di Farber, abbandonando la famiglia e rifugiandosi in Australia. In questo senso, la ricerca dei genitori di Sam, che abbandona la propria moglie e il proprio figlio, per ritrovare i due e, in seguito, si mette a caccia delle persone care a Edith per accumulare le immagini da mostrarle attraverso l'esperimento, sempre inseguito dagli agenti americani e da Claire, l'investigatore privato Winters e Eugene, sembra definire una tematica costante nel viaggio narrato dal film. Una ricerca di immagini, di senso, di unione emotiva, che cerca risposte ad una mancanza assoluta (senso per Claire, affetto per Sam, successo per Henry, una storia da raccontare per Eugene, una preda per Winters). L'unica che pare stabile nella propria condizione pare Edith, interpretata dalla meravigliosa Jeanne Moreau: segue il marito per amore, ma la mancanza della vista sembra renderla l'unica a comprendere davvero sé stessa, trasformarla in un soggetto quasi dotato di poteri e saggezza sciamanica che vive in modo risolto i rapporti affettivi con la propria famiglia. Quasi l'immagine fosse tossica, velenosa, impedisse di “vedere” la vita per ciò che è davvero. Infatti, l'esperienza della visione la scuote al punto tale da portarla alla morte. Il mondo è “più brutto e oscuro di quanto immaginasse”.
Se il soggiorno in Australia dovrebbe, teoricamente, rappresentare una sorta di “luna di miele” per la neo-coppia composta da Claire e Sam e il successo dell'esperimento un trionfo per Henry e Edith, di fatto lo sguardo più ravvicinato della macchina da presa ci mostra un'implosione dei rapporti: la follia egoistica di Henry, la vuota testimonianza di Claire (sempre elemento altero rispetto alla ragnatela familiare dei Farber), il senso di colpa e la rabbia di Sam, che non perdona la perdita della propria famiglia al padre. Solo Gene, l'ex fidanzato di Claire, a cui presta il volto Sam Neal, trova nella scrittura su una vecchia macchina il senso del suo viaggio. Vuole raccontare una storia e lo fa senza ausilio di immagini. Come dichiarato da Wenders stesso: “ho l'impressione che le immagini – evidentemente molte cose sono cambiate da vent'anni a questa parte nella cultura visiva, e trovo che le immagini abbiano perduto quella moralità che avevano ancora vent'anni fa- non esistono più se non attraverso il dubbio su di esse. E quando qualcuno viene a dirmi, dopo uno dei miei film: «Ho veramente amato moltissimo le sue immagini», mi vergogno e subito mi dico: «Devo aver fatto qualcosa di sbagliato». “Fino alla fine del mondo” parla appunto della malattia delle immagini che si può guarire solo con le parole”[1]. L'immagine dunque deve veicolare un racconto. Quindi proprio nella narrazione di queste storie dovrebbe risiedere il senso del film stesso. Ma nello stesso tempo, il regista vuole parlarci di altro: di un'inquietudine legata al futuro che, in un certo senso, può essersi dimostrata profetica.
L'immagine pittorica e l'immagine assente: il futuro distopico e l'esperienza della visione
Sul futuristico 1999 immaginato in “Fino alla fine del mondo” incombe la minaccia nucleare: un satellite nucleare indiano in orbita intorno alla Terra è andato in avaria e si teme possa ricadere sul pianeta, causando una catastrofe apocalittica. Questo sub plot fantascientifico, spiegato immediatamente dopo i titoli di testa, fa da contesto a tutta la narrazione del road movie e della storia d'amore raccontati da Wenders, ma non viene mai mostrato direttamente sullo schermo. Acquisiamo informazioni su un possibile bombardamento atomico del satellite da parte degli U.S.A. mediante immagini diegetiche (telegiornali che compaiono sullo sfondo delle vicende), che sottolineano il pericolo che anche la strategia statunitense possa innescare un cataclisma apocalittico sul pianeta. Wenders mostra il panico generale, la gente che fugge dalle grandi città, ma non si tiene sempre ben a distanza da tutti i cliché tipici del film catastrofico. La minaccia resta sottocutanea, fino all'esplosione del satellite, che avviene ancora una volta fuori campo. L'impulso elettromagnetico nucleare raggiunge Claire e Sam mentre si trovano su un aereo, in mezzo al desertico entroterra australiano, mandando in avaria tutti i sistemi elettrici del mezzo e costringendoli ad un atterraggio di fortuna. “It's the end of the world”, dice la donna di fronte al lampo luminoso dell'esplosione lontana. Tutti i personaggi, che si ritroveranno poi nel villaggio in cui vivono i coniugi Farber, perdono ogni contatto con il resto del mondo.
Nessuno sa se l'umanità sia stata distrutta, se saranno destinati a perire per le radiazioni portate dal vento: tutto ciò che i protagonisti possono fare è interrogarsi, esprimersi, scrivere, quasi fosse l'unico rimedio per sopportare l'attesa di un veleno proveniente dal cielo.
Questa scelta di Wenders, ci riporta alla mente due altre opere: “L'ultima onda” diretto nel 1977 dall'australiano Peter Weir, che racconta proprio dei presagi di una catastrofe climatica pronta ad abbattersi sull'Oceania che non vediamo messa in scena, e “L'ultima spiaggia” del 1959 che, con la regia di Stanley Kramer, che descrive la vita di superstiti alla Terza Guerra Mondiale, rifugiati guarda caso ancora in Australia, che attendono la fine proprio a causa del fallout radioattivo che dall'emisfero settentrionale si sta avvicinando sempre più alle zone più meridionali del mondo.
In entrambi i film, il focus non è sulla catastrofe, ma sul senso di attesa e isolamento dei protagonisti che devono confrontarsi con la morte e la distruzione dell'umanità. La fine del mondo, per l'appunto.
Nonostante nel film di Wenders la minaccia si riveli poi infondata, pone l'accento sulla paura e la preoccupazione che il regista tedesco nutre per il futuro, enfatizzando ancora di più la radicale differenza tra il rapporto degli aborigeni con la Terra e quello delle culture più tecnologizzate.
Tutto il viaggio mostrato nel corso delle prime tre ore di film si rivela un percorso interiore destinato al ricongiungimento con sé stessi e con il mondo stesso, in attesa della morte.
Ma è proprio la morte, di Edith in questo caso, a innescare lo sviluppo fantascientifico più interessante del film. Il dottor Farber cerca di convertire il dispositivo inventato, in uno schermo che permetta di vedere i propri sogni, probabilmente perché è solo lì che può ritrovare l'amata moglie. Quando l'esperimento ha successo, molti personaggi esprimono dubbi sull'eticità di tale scoperta. Ma ben presto, Claire, Sam e Henry cadono vittima di questa fascinazione verso ciò che di più nascosto e privato possa esistere nella vita di un essere umano. Diventano dipendenti dal dispositivo, quasi fosse una droga. E come tale, l'assuefazione distrugge il rapporto tra i due protagonisti, li getta in un “buco nero di isolamento”, in una totale catatonia. Gli aborigeni li abbandonano, in quanto ritengono i sogni conoscenze proibite. “C'è un confine che non andrebbe oltrepassato. Noi lo abbiamo fatto da tempo” sono le parole di commiato che l'ultimo membro del team di ricerca ad abbandonare il villaggio, rivolge a Gene, unico a rimanere e a non essere dipendente dalla “macchina dei sogni”.
Wenders cerca un modo diverso di rappresentare l'esperienza onirica, ritenendo che il cinema fino a quel momento abbia messo in scena il sogno come una prosecuzione del film stesso. Siamo all'inizio degli anni Novanta, l'immagine digitale è ancora in fase sperimentale e, proprio tramite un prototipo generatore di immagini CGI, egli decide di trasformare le immagini riprese in blue screen degli attori che interpretano le sequenze oniriche, in esperimenti pittorici. Utilizza colori acidi, scompone e ricompone le inquadrature in texture, gioca con la dilatazione dei tempi e la riconoscibilità delle figure. Sperimenta un approccio pittorico non figurativo sulle immagini. Si tratta di un'operazione molto interessante perché elimina completamente lo statuto di verosimiglianza del girato, per privilegiare un approccio espressionista e surrealista, rivisto e corretto in un linguaggio futuristico. Quasi a sottolineare che tali immagini non siano fatte per essere guardate, ma per essere semplicemente percepite. Nella sceneggiatura, tale esperienza viene definita come il “vedere l'anima cantare a sé stessa, ci divorerà vivi”.
Claire con l'aiuto di Gene si trova costretta a disintossicarsi da tali visioni subconsce, nel momento in cui il dottore viene catturato dal governo statunitense e le batterie dei monitor finiscono.
In questo ambito, la performance di Solveig Dommartin, autrice del soggetto e interprete di Claire, da considerarsi abbastanza piatta per tutto il corso della pellicola, si rivela molto centrata. Durante una vera e propria crisi di astinenza, di fronte al monitor scarico, in cui si definisce morta insieme ad esso, Gene afferma: “In principio era il Verbo... Alla fine vi erano solo le immagini”. E saranno proprio le parole, come anticipato dal regista, la cura per la protagonista: solo leggendo il manoscritto di Gene, il narratore del film, riesce a ritrovare sé stessa.
La paura che le immagini prodotte dalla pubblicità, sempre più bombardanti ed ipnotiche ma sempre più prive di racconto, vadano ad inficiare lo sguardo dell'essere umano, viene così interpretata da Wenders all'inizio degli anni Novanta. Non solo, ma in un'intervista del 1991 dichiara: “(...) più si vive di immagini, più si vuol essere ciascuno un'immagine per tutti gli altri, e il narcisismo diventa una malattia collettiva”. Più di trent'anni dopo, questa dichiarazione sembra profetica di fronte ad una narrazione di sé per immagini, che penetra fino nelle sfere più private della nostra vita, che viene messa in atto attraverso i social network. Racconti per fotografie sempre meno aderenti alla realtà, sempre più pervasive e stati di vera e propria dipendenza, sono diventati la normalità per quella che viene definita la Gen Z. I contenuti testuali paiono obsoleti, di fronte ad un consumo sempre più compulsivo di immagini, di privato, di identità vicarie e fantasmatiche, in cui la Rete sembra sempre più reale rispetto al mondo fisico.
L'inspiegabile ruolo profetico della musica che produce immagini
“All'inizio della mia carriera […] facevo immagini per vederle accompagnate da una musica in particolare. C'era in me quella voglia folle di sentire una determinata musica con una certa immagine. Direi addirittura che c'era prima la musica, poi le immagini”[2]. Da questa affermazione è intuibile quanto la colonna sonora rappresenti un nodo fondamentale nella sua interazione con il film per Wim Wenders.
In occasione di “Fino alla fine del mondo”, il regista chiese a diciotto musicisti o gruppi di comporre una canzone appositamente per il film, ma con una particolare specifica: voleva che immaginassero una canzone come se si trovassero dieci anni nel futuro. Diciassette artisti accettarono.
All'uscita del film, accorciato nella versione cinematografica a due ore e mezza, su richiesta della produzione, l'opera di Wenders non si rivelò un successo. Il regista stesso, che ritiene un tale taglio di scene totalmente incompatibile con il progetto originale, ammette che fu la colonna sonora a riscuotere maggiori consensi, nonostante non tutti i brani fossero rimasti nella versione proiettata. Quando finalmente uscì la Director's cut in DVD, all'inizio degli anni Duemila, anche la colonna sonora viene dispiegata nella sua interezza a fare da contraltare al film.
Si tratta di nomi del calibro di Talking Heads, U2, Julie Cruise, Lou Reed, Nick Cave and The Bad Seeds, R.E.M., Peter Gabriel e molti altri.
Sarebbe impossibile analizzare ogni brano, ma farò solo due esempi.
Durante la sequenza dell'agonia di Edith, che prende commiato dal marito, interpretato da Max Von Sydow, durante il capodanno Duemila, possiamo sentire la canzone “Days” di Elvis Costello intonata dal personaggio di Claire. “Thank you for the days, Those endless days those sacred days you gave me, I'm thinking of the days, I won't forgot a sigle day believe me. I bless the light, I bless the light that shines on you believe me, And though you're gone, You're whith me every single day, believe me”[3]. La musica nel film è unione e armonia, quasi una preghiera, e in questo caso il testo della canzone accompagna le parole di Jeanne Moreau, che accetta la fine senza rimpianti, lasciando invece un marito spezzato, che non saprà rassegnarsi alla sua perdita. Un testo in contrasto con il sentimento di Farber, che non riesce a lasciare andare il suo amore.
Anche “Blood of Eden” di Peter Gabriel accompagna un momento molto importante, l'emissione dell' EMP, che lascerà Claire e Sam isolati dal mondo, fluttuando soli su un aereo in avaria .
“At my request, you take me in, In that tenderness, I am floating away, No certainty, nothing to rely on, Holding still for a moment, What a moment this is, Oh, for a moment of forgetting, A moment of bliss. I can hear the distant thunder, Of a million unheard souls, Of a million unheard souls,, Watch each one reach for creature comfort, For the filling of their holes”[4]. Un uomo e una donna soli, forse distanti, che si stringono di fronte alla sofferenza universale. Una coppia che si cerca per fuggire da un'inquietudine. Che scambia per amore un tratto di percorso in comune.
Il potere di musica ed immagini insieme riesce a veicolare, ancora una volta tramite la Parola, significati nascosti tra le pieghe dei fotogrammi.
In definitiva, “Fino alla fine del mondo” è un film troppo denso, forse barocco, pieno di intuizioni, di filosofia, di timori, di luoghi, di idee, di storie. Troppo probabilmente. Con una storia produttiva complessa che segnerà un punto di svolta per Wim Wenders e la sua filmografia. Un film che non si è lasciato girare con la libertà creativa che il regista cercava, sia nel rapporto con gli attori, che nella libertà di essere visto da subito per ciò che è. Ma spesso per i grandi progetti di grandi autori finisce così. Ciò non toglie alla potenza visiva, alla profonda riflessione ambientale e sociale, alla forza visionaria di scelte stilistiche e tematiche, che questo film imperfetto porta con sé.
Nel finale, gli U2 intonano il tema “Until the end of the world”: “Love, love, love, love”.
Torniamo al primo treatment del 1978, scritto da Wenders e Dommartin:
“Un film sull'amore
Un film sull'amore
Benché nessuno sappia cosa sia l'amore,
Quindi un film per scoprire.
E poiché i film su un argomento
Sono pensabili solo quando si trasformano in ciò che trattano,
Questo film sull'amore
Diventerà anche un film
nel
con
di
per
a favore e
contro l'amore”[5]
Amore tra due persone, amore per il prossimo, amore per la Terra, amore per il cinema, Amore in senso assoluto. Amore come sempre imperfetto.
di Andrea Brena
[1] A.V.V. “Lezioni di Cinema”, 2007, p. 34
[2] Ibidem, p. 39
[3] Grazie per questi giorni, Quei giorni infiniti, quei giorni sacri che mi hai dato, Sto pensando ai giorni, Non dimenticherò un solo giorno credimi. Benedico la luce, Benedico la luce che splende su di te, credimi, E anche se te ne sei andato, Sei con me ogni singolo giorno, credimi”
[4] Su mia richiesta, mi accogli in quella tenerezza, sto fluttuando via, Nessuna certezza, niente su cui fare affidamento, Rimanendo fermo per un momento, Che momento èquesto? Un momento di oblio. Un momento di felicità. Riesco a sentire il tuono lontano di un milione di anime inascoltate, Di un milione di anime, inascoltate. Guarda, ognuno di loro cerca conforto per riempire le proprie assenze.
[5] Wim Wenders, “The Act of Filming”, 1992
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