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Sogni, ricordi e scatole cinesi: focus sul cinema di Satoshi Kon – Parte 2



Nel 2003 ci ritroviamo di fronte ad un evento che pare totalmente disarmonico rispetto alla carriera di Satoshi Kon, ormai stimato regista anime con una consolidata poetica basata su metanarratività, ricordo e onirismo: esce il film “Tokyo Godfathers”.

Si tratta di una pellicola che, almeno apparentemente, prende totalmente le distanze dalla produzione precedente: la narrazione è lineare, avulsa dalle spirali oniriche e dai rimandi metafilmici che avevano caratterizzato sia “Perfect Blue” che “Millennium Actress”, collocando Kon tra i più promettenti ed avanguardieristici registi di animazione giapponese. Un film da molti considerato un opera minore, in contrasto con il corpus tematico e poetico che caratterizza le opere precedenti e successive dell'artista.

 

La storia, ambientata tra la Viglia di Natale e Capodanno, narra le rocambolesche avventure di tre barboni, Hana una transessuale con uno spiccato senso del dramma, Gin un burbero e irascibile alcolizzato e Miyuki, una ragazzina scappata di casa. Il trio trova per caso, in mezzo ai rifiuti, una neonata a cui Hana dà il nome di Kiyoko: anziché portarla alla polizia i senzatetto decidono di andare alla ricerca dei veri genitori della piccola per capire i motivi dell'abbandono. Impresa non semplice in una città come Tokyo, sempre protagonista sullo sfondo della vicenda, in cui tra coincidenze ed eventi quasi miracolosi, l'impresa finirà per far ritrovare anche ai tre “padrini” della neonata tasselli del proprio passato e risposte ai propri irrisolti.

 

Già in questo senso, l'opera si dimostra seminale a ciò che si dimostrerà “Paranoia Agent”, portando in rilievo le tematiche del trauma e del rimorso: tutti e tre i protagonisti vivono per strada a causa di eventi sconvolgenti e scelte sbagliate. Gin è un ex alcolizzato e giocatore d'azzardo che ha abbandonato moglie e figlia, Miyuki un'adolescente problematica che in un impeto d'ira ha accoltellato il proprio padre poliziotto, Hana è un'ex cantante di cabaret che ha causato una rissa con un personaggio influente nel locale in cui lavorava e a cui, dopo la morte del compagno per AIDS, non ha avuto il coraggio di tornare. I tre barboni hanno creato un surrogato di famiglia, che viene messo in discussione dalla comparsa della neonata. Il loro wandering (girovagare, come definito da Alessia Spagnoli[1]) li porta alla riscoperta di sé stessi, delle proprie origini e delle proprie ragioni di vita. Come scrive Raffaele Meale, “L'umanesimo, che da sempre è elemento traboccante della messa in scena koniana […] deflagra qui in tutta la sua forza e possanza. E questa detonazione, questa esplosione quasi incontrollata di sentimenti umani – la seconda metà di “Tokyo Godfathers”appare a tratti come una sfida crudele e spietata lanciata contro gli spettatori più cinici – Kon riesce a trovarla ragionando ancora una volta sul cinema. Se il cinema documentario era il grimaldello usato per scardinare le difese della memoria, e il cinema di genere (thriller, avventura, action) sarà l'escamotage per accerchiare lo stream of consciousness oniric, è il cinema classico l'unico capace di sublimare il dramma umano”[2].

 

Il film in sé è un remake non dichiarato di un'opera minore di John Ford, “In nome di Dio (3 Godfathers” che nel 1948 racconta di tre fuorilegge, reduci da una rapina, che incontrano una donna che sta partorendo in un vagone abbandonato. Giurano alla donna in fin di vita di salvare il neonato riportandolo alla “civiltà”. Solo uno di loro sopravviverà al viaggio attraverso il Far West. Lo spirito natalizio presente nel film di Ford addolcisce le atmosfere prettamente western, rendendo questo titolo “anomalo” nella filmografia del regista americano. Si tratta di un adattamento del romanzo “Three Godfathers” scritto nel 1913 da Peter B. Kyne, utilizzato come soggetto per diverse pellicole a partire dai tempi del muto e la cui struttura si può rintracciare persino in “L'Era Glaciale” (C.Wedge - C. Saldanha, 2002). Ford e Kyne non compaiono nei credits in quanto Kon affermò di essere partito dall'idea di raccontare una storia legata ai senzatetto e alle loro possibilità di riscatto, inserendo in seguito il McGuffin legato al ritrovamento della neonata.

Ma i riferimenti cinematografici non si fermano a questo: impossibile non cogliere nell'atmosfera natalizia del film e all'insistente appello ai buoni sentimenti un'eco a Frank Capra, con il suo “La vita è meravigliosa” del 1946 per esempio. L'ambientazione urbana, gli incontri fortuiti o meno con il destino, l'ambientazione prevalentemente notturna ricordano “Fuori Orario” (M. Scorsese, 1985), la prostituta travestita da fata angelica strizza l'occhio all'apparizione di Sheryl Lee nel finale di “Cuore Selvaggio” (Lynch, 1990). Senza contare i manifesti di “Perfect Blue” e “Millennium Actress” che campeggiano fuori da un cinema. Altro elemento del cinema giapponese classico è la presenza di haiku inseriti in inquadratura e solitamente declamati da Hana, per enfatizzare il dramma e la poesia di alcune sequenze.

Kon utilizza il cinema classico come veicolo narrativo per raccontare la risoluzione dei traumi e degli incubi esistenziali in una chiave positiva, in cui i film ci accompagnano come parte di un inconscio collettivo pregno di significato, pronto a recepire i segni che il regista dissemina per la pellicola, e non più come espediente metanarrativo che sovrappone differenti livelli di senso e realtà.

 

L'elemento surreale scelto da Satoshi Kon come motore narrativo della storia è una concatenazione di coincidenze ed eventi fortuiti (se non miracolosi), che verrà poi potenziato e amplificato in “Paranoia Agent”: la figura dell' “angelo” che si riverbera durante tutto il corso della storia (l'insegna del taxi, la prostituta già citata, il gatto di Miyuki di nome Angelo, il locale “Angel Tower”) che sembra ribadire il ruolo di “messaggero divino” rivestito dalla piccola Kiyoko, il cui stesso nome si ripete (la figlia del boss yakuza in procinto di sposarsi, l'infermiera che si rivelerà essere la figlia di Gin, che ritroveremo guarda caso proprio in una sequenza di “Paranoia Agent”). Anche i rimandi dagli schermi televisivi acquisiscono un senso: il servizio sulla delinquenza minorile (Gin verrà pestato da un gruppo di giovani), l'estrazione del biglietto vincente della lotteria (che nel finale scopriremo essere stato lasciato a Gin da un vecchio mendicante). Gli incontri con altri personaggi recano con sé riverberi identificativi che aiutano i tre barboni a rielaborare i propri traumi (Miyuki incontra una donna sudamericana figlia di un poliziotto, l'anziano barbone soccorso da Gin è un alcolizzato, come il marito di Sachico, la donna che ha rapito la bimba, si rivela un giocatore d'azzardo, la rapitrice stessa dopo la perdita del proprio bambino rispecchia il desiderio impossibile di maternità di Hana). Il caso come elemento magico e mezzo di introspezione pone nuovamente il cinema di Kon come farmaco per il disagio sociale sempre presente nelle sue opere.

 

L'elemento onirico ricorre in un'unica occasione, il flashback che racconta la storia di Miyuki, in cui l'ambiente familiare di origine (padre assente e autoritario, madre devota e drammatica) si sovrappone con quello rappresentato da Gin e Hana, rispecchiando ancora una volta il ruolo terapeutico del sogno in Kon (a differenza ad esempio di Lynch, in cui la dimensione onirica è un varco per addentrarsi nei lati più oscuri dell'umano e della società in un viaggio senza ritorno).

 

Infine, vera protagonista onnipresente di tutto il film è Tokyo: città che cela tra le proprie insegne i titoli di testa del film, labirinto e scenario sempre più essenziale nella poetica koniana, che sembra deriderci e sorriderci nei titoli di coda, mentre la sua skyline balla una versione elettronica dell'“Inno alla Gioia” di Beethoven, brano simbolo universale della fratellanza, ma spesso utilizzato in contesti ben più stranianti e controversi (si veda il suo reiterarsi nel nazismo o in “Arancia Meccanica”[3]) ed analizzato come semplificazione e, a volte, banalizzazione dell'ideale sublime di unione e solidarietà da Slavoj Zizek[4]. Una fratellanza natalizia, dolce come gli happy ending hollywoodiani ma che in realtà sottende un disagio ben più profondo.

 

Se “Tokyo Godfathers” può apparire a prima vista come un film semplice (probabilmente quello di più semplice nella filmografia di Kon) esso rappresenta di fatto il primo tassello di un metaverso che attraverserà per tematiche, luoghi, personaggi, tutte le opere successive del regista.

 

Prorpio l'anno successivo, il 2004, vede la luce il nuovo progetto di Satoshi Kon: la serie televisiva “Paranoia Agent”. Oggi una miniserie televisiva diretta da un autore del calibro di Kon potrebbe sembrare quasi scontato, ma in quel periodo dove, soprattutto nell'ambito anime dominava la lunga serialità, considerata più redditizia su progetti di successo, la scelta di utilizzare il mezzo televisivo si rivela tutt'altro che scontata.

 

“Paranoia Agent” si articola in 13 episodi in cui Kon sfrutta il mezzo televisivo, anziché snobbarlo, per costruire un'opera di respiro più ampio, con tempi meno limitati rispetto alla fruizione in sala, che gli dà la possibilità di costruire un vero e proprio microcosmo ambientato a Tokyo, dove espandere sia nella forma che nei contenuti la propria poetica narrativa.

 

Il nucleo della storia risiede nel fatto che, nel corso di tutta la serie, un misterioso ragazzino in pattini a rotelle dorati, berretto e mazza da baseball aggredisce dei personaggi con un tratto comune: sono infelici, soffocati dalla società, hanno traumi e rimpianti che li perseguitano. L'aggressione finisce per diventare un rimedio ai loro problemi e alla loro disperazione.

Già nelle sequenze iniziali, è la città ad essere indagata da Kon: una folla anonima, schiava dei cellulari, stipata in vagoni della metro, quasi una mandria schiava della routine alla base della società giapponese. Egli “mette in scena il caos organizzato che domina la nostra era, una sorta di inferno sulla terra, cui tutti siamo condannati: il mondo rappresentato da Satoshi Kon con sguardo lucido e assolutamente aderente alla realtà, è un ingranaggio globale che non prova pietà e rispetto nei confronti dei suoi piccoli e insignificanti componenti, pronti per essere sostituiti nel momento del collasso”[5]. È interessante soffermarsi su quest'ultimo concetto che preannuncia la circolarità della narrazione: non esiste via d'uscita dalla spersonalizzazione e dalla sofferenza imposta dal vivere nella civiltà umana. Kon ci racconta il disagio, fino al punto di deflagrazione e ipotizza una soluzione, una possibilità di riconciliazione tra il nostro inconscio e il reale, che tornerà ad uno stato di stasi fino al prossimo momento di rottura. Non può proporre nessun happy ending, come fatto in “Tokyo Godfathers”, ma può solo limitarsi a raccontare come la società contamini l'animo dei suoi abitanti come un morbo e come essa stessa venga influenzata dalla materializzazione di quello che pare essere una sorta di inconscio collettivo, destinato a distruggere lo status quo per poi tendere nuovamente al suo ripristino, quasi fosse uno stato osmotico senza cui sarebbe impossibile l'esistenza stessa del nostro tempo.

Il vecchio saggio dell'inizio (perché solo il folle pare vedere il mondo per ciò che è), Ojii Chan, che scrive formule apparentemente insensate sull'asfalto torrido di una Tokyo estiva finirà per essere sostituito da Maniwa, in una sequenza conclusiva esattamente speculare a quella di apertura.

 

Ogni episodio racconta una storia concatenata a quella dei precedenti, ognuna evidenzia criticità e contraddizioni della società giapponese, talvolta con stili figurativi o forme narrative diversi tra loro.

Tzukiko Sagi, disegnatrice che ha creato il personaggio di Maromi, una cagnolina kawaii diventata fenomeno mediatico in tutto il Giappone, è la prima vittima di Shonen Bat: sta vivendo un blocco creativo e apparentemente si colloca nel contesto della serie come una vittima degli ingranaggi produttivi giapponesi. In realtà, questo personaggio si rivela ben più radicato nell'analisi psicanalitica che permea tutta la serie. Vittima di un trauma e del conseguente senso di colpa, la ragazza è di fatto colei che “crea” due personificazioni dei meccanismi di difesa di rimozione: da un lato la dolce Maromi, rassicurante voce interiore che allontana dall'Io le reminiscenze inconsce (una sorta di rappresentazione di un vacuo consumismo, mirato a sublimare in modo tranquillizzante i conflitti tra individuo e società), dall'altro lo stesso Shonen Bat, aspetto violento e patologico di un disperato bisogno di scollamento dal reale, che interviene quando i più semplici meccanismi psichici di sublimazione sembrano non essere più sufficienti. Due facce della stessa medaglia.

 

Di episodio in episodio, assistiamo alla rappresentazione feroce di una società che non risparmia nessuno, che spinge ogni individuo rappresentato a scivolare sempre più vertiginosamente in voragini psicologicamente patologiche, fino a giungere al punto di rottura, l'arrivo di Shonen Bat a liberare i soggetti dalla propria realtà.

I temi socialmente rilevanti toccati in questa prima parte della serie sono numerosi: l'insostenibile pressione sociale a cui sono sottoposti gli individui sin dall'età scolare, la repressione sessuale con conseguenti atteggiamenti schizofrenici, la corruzione e i rapporti con la malavita insinuati sin all'interno degli organi di polizia, l'alienazione attraverso realtà videoludiche, il suicidio e i cosiddetti suicide pact sanciti in Rete in siti dedicati, la pressione lavorativa proprio nel settore dei disegnatori di fumetti e anime, la paura del giudizio altrui e la nostalgia dei tempi passati.

Con il crescere della paranoia, le storie diventano sempre meno individuali, coinvolgendo sempre più quello che potremmo definire “inconscio collettivo”: lo stesso Shonen Bat, nel finale, prende la forma di una sorta di blob distruttivo che si abbatte su Tokyo stessa (eco dell'influenza di Ōtomo), contrastato da Maromi stessa. Ma l'unica cura a questo male è la rivelazione del trauma, la presa di coscienza del reale, da parte di Tzukiko e dei protagonisti che hanno scelto di accettare la propria realtà o estraniarsene totalmente, i folli.

 

Kon sceglie di raccontare questa storia corale utilizzando strumenti diversi: nell'episodio 4, alternando le tragicomiche e depravate avventure del poliziotto Hirukawa a immagini fisse di un manga, parodiando un'avventura fantasy nell'episodio 5 (proiettando nelle fantasie del ragazzo disturbato anche gli agenti che lo stanno interrogando, come in “Millennium Actress”), utilizzando l'espediente del fuori campo nell'episodio 7 che racconta del difficile rapporto col padre della protagonista (che si rivelerà essere figlia proprio di Hirukawa), il tono di commedia con cui mette in scena i tentativi di suicidio dei personaggi dell'episodio 8, la forma episodica in cui sfrutta differenti stili di design per rappresentare le leggende metropolitane inventate dalle casalinghe dell'episodio 9, rappresentando le figure professionali dell'animazione stessa tramite l'associazione di storyboard, anime deformed e di alta qualità, corredando il tutto di descrizioni delle professioni coinvolte nel processo produttivo.

Nell'episodio 11, in particolare, il detective Ikari viene proiettato in una città bidimensionale, stilizzata, disegnata a tratti di pastello: questo luogo rappresenta il ricordo del Giappone del passato, il rimpianto di una vita più semplice, il ricordo edulcorato e mitizzato della giovinezza. Traghettato in questo non-luogo da Maromi, il detective potrà tornare al reale solo accettando che non esiste rifugio per sottrarsi alla vita.

 Questo rifugio bidimensionale ritornerà anche in “Paprika”, evidenziando sempre più chiaramente come il corpus delle opere koniane si stia sviluppando come un unico universo narrativo. Ancora una volta attraverso il linguaggio e la grammatica stessa del cinema: “Cinema di pittori, ma anche cinema fantascientifico, di viaggio, d'animazione come mezzo conoscitivo in grado di vedere oltre e di più, di scomporre e alterare il movimento, di creare associazioni visivo-mentali, di riprodurre i complessi meccanismi del pensiero, o del sogno. Cinema telescopio e microscopio del tempo, come diceva Vertov; cinema intellettuale, di idee, capace di lavorare con idee astratte, come affermava Ejzenštein: il cinema è la sola arte concreta che sia allo stesso tempo dinamica e che possa mettere in movimento le operazioni del pensiero.”[6].

 

Nel corso della serie è quantomai evidente come Satoshi Kon sfrutti ancora una volta il tema del doppio (analizzato già in “Perfect Blue”), come sintomo di lacerazione dell'identità e della società: Maromi/Shonen Bat, reale/rimosso, ma anche associando e contrapponendo coppie di personaggi che, nel corso di tutti gli episodi, sembrano voler personificare proprio la dualità e la contraddittorietà dell'intero sistema sociale giapponese (l'esempio più iconico è sicuramente l'episodio 3, Double lips, in cui la protagonista soffre di personalità multipla). Questa duplicità è senz'altro uno dei tratti distintivi di un'altra serie televisiva che, come “Paranoia Agent”, utilizza l'elemento del surreale e dell'onirico per dipingere i tratti disfunzionali di una cittadina e di una cultura, quella americana: si tratta chiaramente di “Twin Peaks” (D. Lynch – M. Frost, 1990). Come Lynch, Kon compenetra dimensione reale e onirica, stempera il dramma con la commedia, sfruttando i generi come lenti d'ingrandimento sul disfunzionale divario tra realtà e apparenza. L'opera viene omaggiata da Kon all'interno della propria opera tramite il “Sogno premonitore”, momento conclusivo di ciascun episodio in cui il vecchio  Ojii Chan, in smoking, dalla superficie lunare anticipa, con frasi apparentemente insensate, ciò che accadrà nella puntata successiva: questo personaggio non può non evocare la “donna ceppo” che introduce ogni capitolo del serial lynchiano con una sorta di flusso di coscienza che nasconde in sé segreti e rivelazioni riguardanti il mistero di Twin Peaks.

 

“Paranoia Agent” è la dimostrazione che “l'essere del mondo rappresentato da Kon è friabile, liquido, impermanente: non possiede le caratteristiche di stabilità e sostanzialità che vorremmo potergli attribuire. Tuttavia in questa realtà composta da fili intrecciati, di strati sovrapposti, la presenza del sogno si rivela necessaria proprio per bilanciare gli altri aspetti della vita, quelli diurni e razionali”[7], per citare direttamente l'opera successiva di Kon, “serve un pizzico di paprika!”.

Si potrebbe considerare “Paprika”, uscito nel 2006, come il compendio di tutta la tematica, la poetica e la visionarietà di Satoshi Kon. Il sogno diventa pharmakon, cura e veleno della realtà.

Innegabile l'influenza che questo film abbia avuto su cineasti successivi (si pensi a Christopher Nolan e al suo “Inception” del 2010). Benché sia tratto dall'omonimo romanzo di Yasutaka Tsutsui, che personalmente chiese a Kon di adattare la propria opera per un anime, il dispositivo per entrare nei sogni altrui attorno a cui ruota la trama, la DC Mini, non può non farci ripensare anche a “Fino alla fine del Mondo” (Wenders, 1991), in cui compare un macchinario simile, che comporta persino una vera e propria dipendenza nei protagonisti.

 

La trama del film ruota attorno al personaggio di Paprika, alter ego onirico e segreto della dottoressa Chiba Atzuko, una sorta di guida e guaritrice dell'inconscio, che tramite la DC Mini (un dispositivo che permette di entrare ed esplorare gli altrui sogni) tenta di curare patologie e stati alterati dell'Io dei pazienti. Tra i pazienti, il capitano Konakawa, ossessionato da un sogno ricorrente, che ricorre all'aiuto di Paprika in segreto, in quanto la procedura non è stata ancora collaudata per un utilizzo legale. Alcune DC Mini vengono rubate e il ladro inizia a penetrare nei sogni dell'equipe scientifica che si occupa del progetto, creando un delirio vigile che conduce i malcapitati al suicidio. Paprika/Chiba iniziano ad indagare sull'accaduto, per identificare il responsabile del furto. A causa del collegamento tra ladro e vittime, si sta formando una “parata”, un conglomerato di onirico che mischia i sogni della mente malata che ha rubato il dispositivo a quelli dei sognatori presi di mira. Ben presto questo sogno delirante invade i sogni altrui e si scopre che il vero responsabile è il Presidente della società che sviluppa la DC Mini, che considera i sogni un luogo sacro ed inviolabile, ma che preda della propria follia mira a controllare gli esseri umani prendendo il controllo dei loro sogni. Realtà e sogno si fondono, fino al confronto finale tra l'entità da incubo in cui si è tramutato il Presidente e Paprika stessa.

 

La natura metacinematografica della pellicola si rivela sin dalle prime sequenze, in cui Kon cita Tarzan, “007-Dalla Russia con Amore” (Young,1963), “Dragonball” (Toriyama, 1984), per disseminare il film di ogni sorta di citazione: dalla Trilli disneyana di “Peter Pan” (Geronimi – Jackson .- Luske, 1953), ai cartelloni pubblicitari di “Vacanze Romane” (Wyler, 1953), oltre alle locandine dei precedenti film di Kon. Konakawa stesso, deve fare i conti con il proprio irrisolto che riguarda proprio un passato da cineasta amatore e che nei sogni si trova a fare i conti proprio con sale cinematografiche, vecchi set che richiamano alla città bidimensionale di “Paranoia Agent”.

Il cinema stesso parla il linguaggio del sogno: anche limitandoci ad un'analisi puramente semiotica del rapporto tra segni/significati, “nel sogno come nel film, non ci sono solo immagini, c'è, chiaramente o confusamente, tessuta da quelle stesse immagini, una successione organizzata o caotica, di luoghi, azioni, momenti, personaggi”[8].

Si tratta di un rapporto molto complesso, quello tra la situazione cinematografica e quella onirica, fondata non solo sulla carica significativa dei processi identificativi e proiettivi che, trascendendo le logiche della ragione, possono essere rivelatori di cambi di prospettiva, o vere e proprie “fughe dalla realtà”: nel cinema di Kon in particolare, le associazioni di immagini, i repentini scivolamenti tra diversi livelli di realtà, i raccordi di montaggio e il surrealismo immaginifico sembrano replicare proprio la grammatica, apparentemente caotica, del sogno. Un caos organizzato, un caosmos, in cui gli elementi del reale soggettivo si fondono con simboli dell'immaginario collettivo, come dimostra la sequenza della “parata”: “una collisione festosa di tutto ciò che rappresenta e compone il Giappone contemporaneo, un punto di osservazione utilissimo per comprenderne le sue aree più creative, dove la creazione è spesso qualcosa che si origina da un caos gioioso. L'immaginario pop si innesta e si mischia alle varie tradizioni e se sboccia qualcosa che alla fine, in un movimento da nastro di Moebius, deborda fuori dal film, dai manga per tornare all'esterno e modellare la realtà stessa”[9].

Paprika stessa si rivela un trickster, un attraversatore di confini, che accompagna lo spettatore/paziente attraverso uno specchio di lewisiana memoria: come Alice, è in grado di viaggiare tra mondo, conscio e inconscio, visibile e invisibile, reale e immaginifico. Nella sua implicita doppiezza, tema caro al regista giapponese, riesce a trasformare questo viaggio nell'inconscio come un cambio di prospettiva, un punto di osservazione di sé inaccessibile all'Io razionale. In questo senso anche lo schermo cinematografico si rivela come soglia, che dà accesso ad altri mondi ed altre versioni di sé (grazie ai processi identificativi), ma anche specchio in cui sdoppiarci, proiettarci in un altrove fino al risveglio, l'accensione delle luci in sala mentre scorrono i titoli di coda. Doppio, metanarrazione, sogno trovano in “Paprika” la loro sintesi perfetta.

“Non siamo interamente sprofondati nel sogno e d'altra parte neanche nel mondo della veglia, non siamo né al di qua, né al di là dello specchio di Alice ma è come se scivolassimo, impazzite gocce di mercurio, sulla sua superficie. Il film è una zona intermedia, dove tutti i mondi sono compresenti in sovraimpressione, una zona di passaggio, gray zone fantasmagoricamente colorata, ricca e popolata”[10].

 

Proprio su questa sovrimpressione (letteralmente) tra sonno e veglia parla il cortometraggio “Ohayo”[11] (parte della seconda stagione del progetto collettivo Ani-kuri, trasmesso nel 2017 da NHK), letteralmente “Buongiorno”, in cui Kon mette in scena il moltiplicarsi onirico del risveglio di una donna. Si tratta della rappresentazione di quella zona liminare, sospesa tra sonno e veglia, in cui il sogno e la realtà sembrano moltiplicarsi in un gioco di scatole cinesi, appena prima di tuffarsi nel reale quotidiano.

 

Questo è l'ultimo lavoro di Satoshi Kon di cui il pubblico ha potuto godere.

Il 18 Maggio 2010 gli fu diagnosticato un tumore al pancreas. Stava lavorando al suo progetto successivo Yume-miru Kikai”, che nonostante la volontà del presidente di Mad House, Masao Maruyama, non vedrà mai la luce: tutto era ancora parte di Kon, troppo per essere preso in mano da altri.

Satoshi Kon è morto a Tokyo il 24 Agosto 2010, all'età di soli 46 anni.

Il giorno dopo venne pubblicata sul suo blog, Kon's Tone, una lunga lettera, intitolata Sayonara, in cui il regista racconta gli ultimi drammatici mesi della sua vita e ringrazia per ciò che ha ricevuto dalla vita. Solo con le sue stesse parole, e con immensa gratitudine, potrei pensare di concludere questa trattazione su ciò che ci ha lasciato, il suo incredibile e meraviglioso cinema.

 

Ebbene, a tutti coloro che sono rimasti ancora qui con me attraverso questa lunga missiva, grazie.Con il cuore colmo di gratitudine verso tutto ciò che esiste di buono a questo mondo, ora poso la penna.Vogliate scusarmi, ora devo andare*”[12]

今 敏

 

 

Andrea Brena


[1]    A.V.V. - “Satoshi Kon – Il cinema attraverso lo specchio” - p. 89

[2]    Ibidem – p. 187

[3]    “Arancia Meccanica (Kubrick, 1971)

[4]    “Guida perversa all'ideologia” (S.Fiennes, 2014)

[5]    A.V.V. - “Satoshi Kon – Il cinema attraverso lo specchio”, p. 108

[6]    S.Lischi – Visioni elettriche. L'oltre del cinema e l'arte del video. p. 103

[7]    M. Ghilardi, “Filosofia nei manga: estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo, p. 158

[8]    Christian Metz, “Cinema e psicanalisi”, p. 134

[9]    A.V.V. - “Satoshi Kon – Il cinema attraverso lo specchio”, p. 136

[10]  Ibidem, p.143

[12]        * Note: お先に (o-saki ni)In giapponese questo termine viene utilizzato per scusarsi di lasciare un luogo prima di altre persone che invece vi rimangono. Nel contesto della lettera di Satoshi Kon, esso suona un po' come "Ora devo andare, scusatemi se lascio questo mondo prima di voi".

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