top of page

“La guerra fra poveri” nel cinema di Leonardo Di Costanzo - Parte 2



Ecco allora che le dinamiche sociali che emergono nel mediometraggio Un Cas d’école divengono la rappresentazione cinematografica di quanto è stato illustrato fino ad ora: soggetti che appartengono alla stessa classe che vivono a stretto contatto fra loro in una situazione di conflittualità.

Un Cas d’école è, infatti, il racconto documentaristico di un anno scolastico nel Collegio Nino Cortese, una scuola media nella periferia di Napoli. L’ambiente scolastico è, come scrive il critico Alberto Zanetti, sospeso “tra la lingua italiana e il dialetto napoletano, tra educazione civica e legge della strada”[1], come sovente accade nelle istituzioni scolastiche situate in periferia. In questo clima surreale si consuma la prova tangibile del più drammatico dei conflitti interni alla stessa classe: buona parte dei docenti sono, infatti, non solo sordi rispetto alle esigenze e le fragilità didattiche dei loro alunni, ma appaiono quasi infastiditi dalle incombenze del ruolo che ricoprono. In merito a questo uno spunto interessante lo offre lo scrittore Giuliano Compagno:

 

Di Costanzo si rende conto che le figure più problematiche, forse, sono i docenti. Già, perché essi non hanno compreso appieno la delicatezza della loro funzione, di far comprendere agli studenti cosa davvero sia una scuola. In apparenza ce la mettono tutta, ma si rivolgono agli alunni con una partecipazione che talvolta coincide con forma di sfogo e frustrazioni personali[2].

 

Il clima che ne deriva è sopra le righe, talvolta quasi anarchico. In questo contesto caotico, l’elemento di equilibrio è dato dalla macchina da presa che si muove con discrezione e, a tratti, sembra essere quasi invisibile: “sta un passo indietro”[3] nel riprendere ciò che accade. Appare evidente agli spettatori che insegnanti e alunni non appartengano a classi sociali diverse fra loro: nonostante questo, fra di loro esiste una barriera difficile da distruggere, frutto della situazione estremamente disagiata in cui vivono.

Il Municipio VI di Napoli in cui è situata la scuola è, infatti, da molto tempo abbandonato a sé stesso, e questo non può che favorire il proliferare di situazioni di conflitto.  I ragazzi e i docenti condividono lo stesso triste destino: abbandonati dalle istituzioni, si trovano a cercare di sopravvivere ad una realtà che, in molti casi, li sovrasta. I docenti, insoddisfatti, non riescono a vedere negli alunni dei soggetti che hanno bisogno, per sfuggire al degrado in cui vivono, degli strumenti culturali che loro hanno da offrire. In questo senso, la figura che emerge in modo differente rispetto agli altri è quella della preside dell’istituto: infatti, come sostiene Giuliano Compagno “il ragionamento che in genere propone ai ragazzi attiene al loro diritto di emanciparsi dalla realtà, perché il mondo è grande e la scuola serve a questo”[4].

In questo modo è proprio lei a dimostrare di comprendere la complessità che comporta cercare di integrare nel tessuto della società dei ragazzi che vivono ed esperiscono una realtà tremendamente difficile. Le soluzioni che la preside individua sono volte a cercare di arginare il caos imperante e la situazione di palese conflitto fra i membri del corpo docente e gli studenti: ad esempio, come ricorda Alberto Zanetti, “ha deciso di non ricorrere più all’espulsione come misura disciplinare perché la capacità di insegnare a tutti è la ragione d’essere della scuola pubblica”[5]. L’azione della preside è un tentativo di porre fine allo sconquassamento di una società sempre più individualista, in cui anche il ruolo della scuola e dell’istruzione è in perenne disfacimento.

Proprio in questo senso si muove un altro documentario dell’autore ischitano, ossia Cadenza d’inganno (2011). Questo mediometraggio costituisce, per Di Costanzo, il lavoro più sperimentale della sua filmografia. Egli rafforza quanto ha asserito in Un cas d’école sin dall’incipit, in cui la voce narrante del regista, che ci accompagnerà in tutta l’opera, recita:

 

Il Quartiere Montesanto è al centro della città. Qui i ragazzi occupano le strade in permanenza. Sono produttori di energia, calore, disordine, gioco, violenza.

 

In Cadenza d’inganno, il piccolo protagonista è Antonio, un ragazzino che, come ha rivelato Di Costanzo “era stato scelto non per la sua disponibilità, ma al contrario per la sua riluttanza a giocare con la macchina da presa”. Antonio potrebbe essere, per comportamento ed estrazione sociale, uno degli studenti di Un cas d’école, e la sua riluttanza nel mostrarsi è un sintomo del suo sentirsi estraneo e dis-integrato rispetto alla realtà che lo circonda. Montesanto è un formicaio che brulica di personaggi che vivono uno stato di alienazione e di emarginazione, non in grado di comunicare fra di loro ed in perenne guerra per la loro stessa esistenza.

Lo stesso Antonio ad un certo punto sceglierà di sottrarsi allo sguardo del regista, alla macchina da presa. Anni dopo, in modo iconico, sarà lui a scegliere il finale, il “punto” da mettere alla sua storia: chiederà, infatti, a Di Costanzo di presenziare al proprio matrimonio e filmarlo. Questo è, forse, secondo il regista stesso “un atto di resistenza”[8], il suo modo di rivendicare la propria identità ed il proprio diritto ad esistere all’interno della società.

Un Cas d’école e, soprattutto, Cadenza d’inganno sono cruciali nell’esperienza cinematografica di Leonardo Di Costanzo per convincerlo a passare dal documentario ai racconti di finzione. Egli ha dichiarato, infatti, che esiste una “trappola del documentario”. Il regista si rende conto, infatti, che, spesso, i protagonisti dei documentari finiscono con il comportarsi come dei veri e propri attori, e ciò lo convince della necessità di un radicale cambio di forma per proseguire il proprio percorso[9]: è, infatti, proprio il comportamento di Antonio di Cadenza d’inganno l’evento decisivo che rafforza in lui questa idea. Tuttavia, Di Costanzo anche nelle opere successive di finzione non abbandona il forte afflato sociale che ha caratterizzato la sua azione di documentarista e che, più in generale, contraddistingue la sua produzione tutta.


[1] Alberto Zanetti, “Ma questo viene nel filmino?”: a scuola e cadenza d’inganno, in Juarès Baldeschi, a cura di, Vivere l’assedio: il cinema di Leonardo Di Costanzo, La Conchiglia di Santiago, San Miniato, 2023, p. 58.

[2] Giuliano Compagno, Leonardo Di Costanzo. Il tempo sospeso del racconto, Castel Negrino, Arenzano, 2023, p. 10.

[3] Alberto Zanetti, “Ma questo viene nel filmino?”: a scuola e cadenza d’inganno, in Juarès Baldeschi, a cura di, Vivere l’assedio: il cinema di Leonardo Di Costanzo, La Conchiglia di Santiago, San Miniato, 2023, p. 59.

[4] Giuliano Compagno, Leonardo Di Costanzo. Il tempo sospeso del racconto, Castel Negrino, Arenzano, 2023, p. 10.

[5] Alberto Zanetti, “Ma questo viene nel filmino?”: a scuola e cadenza d’inganno, in Juarès Baldeschi, a cura di, Vivere l’assedio: il cinema di Leonardo Di Costanzo, La Conchiglia di Santiago, San Miniato, 2023, p. 58.

[8] Ivi, p. 61-2.

[9] Franco Montini, Piero Spila, Racconto il margine e la bomba sotto il tavolo, in “Cinecritica”, 104, 2021, pp. 6 – 17, p. 7.


Roberto Vitacolonna

Yorumlar


©2022 di ReadyToRec. Creato con Wix.com

bottom of page