IL DOPPIO INFINITO E LA FILOSOFIA NEL B-MOVIE DIFANTASCIENZA ANNI CINQUANTA: FOCUS SU “THE INCREDIBLE SHRINKING MAN”
- Ready To Rec
- 16 ago 2024
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 17 ago 2024

La fantascienza anni Cinquanta è stata rivalutata solo di recente, ma tra le fila di un'infinità di produzioni più o meno apprezzabili, sia per scrittura che per fattura, esistono dei gioielli nascosti, pervasi di filosofia, di poesia, che riescono a gettare uno sguardo tagliente sul loro tempo, andando oltre la superficie e penetrando come dei bisturi in assunti che appaiono assoluti ma che in realtà si aprono su visioni affascinanti e molteplici dell'esistenza umana.
È molto importante andare a contestualizzare il periodo storico durante cui prenderà vita il film che andremo ad analizzare: siamo alla fine degli anni Cinquanta, in piena Guerra Fredda. I film di fantascienza sono confinati allo status di b-movies, nonostante il genere si riveli in realtà quello che meglio riesce a mettere in scena ansie e aspettative peculiari di quel periodo storico. In Giappone, Inoshiro Honda mette in scena il terrore della radioattività, creando “Godzilla” (1954), oltre ad altre opere come “Uomini H” (1958), chiaramente incentrate sulle conseguenze dell'utilizzo di armi atomiche e della conseguente contaminazione ambientale. Negli Stati Uniti, in piena corsa allo Spazio e saturi di timori sulla “minaccia sovietica”, vengono prodotti film come “La cosa da un altro mondo” (Nyby, 1951), “L'invasione degli ultracorpi” (Siegel, 1956), che concretizzano la paura di invasioni segrete, “Il Pianeta Proibito” (Wilcox, 1956), o “Il cittadino dello spazio” (Newman, 1955), mettono in scena l'idea del viaggio spaziale, “La fine del mondo” (MacDougall, 1959) e “L'ultima spiaggia” (Kramer, 1959), inscenano un mondo distrutto dalla guerra nucleare. Sostanzialmente sono proprio i film di fantascienza, considerati opere minori e di genere, a rappresentare al meglio paranoie e timori di quel decennio.
In questo contesto, il regista di fantascienza Jack Arnold decide di adattare per lo schermo il romanzo di Richard Matheson “Tre millimetri al giorno” (1956) e collaborando proprio con lo scrittore dà vita ad un piccolo gioiello di fantascienza “anomala”: “Radiazioni BX: Distruzione Uomo”, uscito nel 1957 e che, dato il disgraziato adattamento del titolo in italiano, chiameremo come l'originale americano “The Incredible Shrinking Man”.
Si tratta di un'opera molto particolare perché, nonostante parta proprio da una contaminazione radioattiva come fattore scatenante, rivolge il proprio sguardo proprio sulla condizione umana, allontanando invasioni aliene, guerre nucleari e viaggi siderali dal centro della narrazione, ma centrandosi proprio sullo status dell'uomo rispetto a ciò che lo circonda.
Scott Carrey, durante una vacanza in barca con la moglie, viene in contatto con una nube misteriosa. Tornato a casa, inizia a rendersi conto di stare progressivamente rimpicciolendosi. A nulla valgono gli interventi medici, Scott finisce per ritrovarsi intrappolato nella propria cantina, ormai delle dimensioni di un piccolo topo, dopo essere scampato all'agguato del proprio gatto ed essere stato rapidamente dato per morto dalla moglie. Qui continua la sua lotta per la sopravvivenza, mentre il proprio corpo continua inesorabilmente a ridursi.
Nonostante gli anni Novanta ci abbiano abituati a commedie per famiglie che si basano sullo stesso assunto iniziale, la storia di Carey si rivela tragica e poetica nello stesso momento.
In questo caso è importante fare riferimento al concetto di “doppio infinito” che il filosofo Blaise Pascal utilizza per definire la condizione umana: “L'uomo contempli la natura intera nella sua alta e piena maestà: allontani il suo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. […] Voglio dipingergli non solamente l'universo visibile, ma quell'immensità della natura che si può concepire nell'ambito dello scorcio di un atomo. Vi scorga un'infinità di universi di cui ciascuno ha il proprio firmamento, i suoi pianeti la sua terra nelle stesse proporzioni del mondo visibile. [...]chi non si stupirà infatti che il nostro corpo, che poco fa non era percettibile nell'universo, impercettibile a sua volta in seno al tutto, sia ora un colosso, un mondo o piuttosto un tutto, in confronto al nulla, a cui non si può arrivare? [...] Infine, cos'è l'uomo nella natura? Un nulla in confronto con l'infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto. […] Qualunque termine a cui pensiamo di legarci e di fermarci, oscilla e ci abbandona: e se lo seguiamo, sfugge alla nostra presa, ci scivola via e fugge di una eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È la nostra condizione naturale, e tuttavia la cosa più contraria alla nostra inclinazione; noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un'ultima base solida per edificarvi una torre che si alzi all'infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre fino agli abissi. Non cerchiamo, dunque, sicurezza e stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo raccolgono e lo sfuggono. (B. Pascal, Pensieri, 1670).
Proprio su questa angoscia e sulla progressiva presa di coscienza di Scott rispetto a questi due infiniti si basa il lavoro di Matheson e Arnold.
Scott Carrey è un uomo prestante e sicuro, che vive in un mondo in cui osserva ciò che è più piccolo con serena tranquillità e ciò che è infinito o incontrollabile (pensiamo sempre anche al contesto presentato inizialmente, in cui l'uomo è padrone del mondo e tuttavia sotto scacco rispetto alle potenze che tenta di controllare) con distacco e superficialità. Proprio il progressivo passaggio di stato che egli vive, rimpicciolendosi sempre di più senza possibilità di arrestare il processo, lo portano ad un confronto con l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, che si colloca sempre più in quella condizione innaturale e angosciosa descritta da Pascal.
Un semplice gatto domestico, che in più sequenze ci viene mostrato in braccio al padrone, spostato con un solo gesto da un uomo forte della propria colossale grandezza rispetto all'animale, si rivela invece uno spaventoso predatore agli occhi dello stesso Carrey, quando viene aggredito in un'inquietante casa da bambole dal felino.
Dalle dimensioni di un topolino la prospettiva sul mondo si stravolge completamente; lo stesso vale per l'ambiente domestico, per il cibo, per ogni periglio che l'uomo si troverà ad affrontare in ragione della propria sempre più ridotta statura, fino a culminare nel confronto con la tarantola. Questo ribaltamento si rivela ancor più significativo per i rapporti interpersonali.
Diviene chiaro fin da subito che il matrimonio tra Scott e Louise è destinato a crollare di fronte a questa disparità fisica. Significativa, in questo senso, è la scena in cui il protagonista tenta di confrontarsi con la moglie in merito ad una possibile separazione e, mentre la donna lo rassicura, vediamo la fede nuziale cadere dal dito ormai troppo piccolo dell'uomo. Non solo deprivato del proprio ruolo sociale in una società prettamente patriarcale come quella americana degli anni Cinquanta, ma anche del proprio ruolo sessuale, chiaramente alluso ma non esplicitato nel film.
Su questo aspetto è interessante citare una sequenza del film “Parla con lei” (Almodóvar, 2002): Benigno, uno dei protagonisti, narra di un film che ha visto alla sua paziente in coma. La trama ricalca a grandi linee quelle di “The Incredible Shrinking Man”, con la differenza che il protagonista grassoccio (in cui il narratore si identifica) sperimenta una cura dimagrante, inventata dalla fidanzata scienziata Amparo, trovandosi però a rimpicciolire sempre di più proprio come Scott Carrey. Nel finale, l'uomo, ormai alto pochi centimetri, inizia ad accarezzare il seno della fidanzata addormentata fino a scivolare tra le sue gambe e simulare una sorta di rapporto sessuale infilandosi completamente nella vagina di lei, che finisce per risucchiarlo, mentre sul viso di Amparo appare una smorfia di piacere. Il suo destino è di continuare ad esistere in qualche modo come parte di lei, di scomparire dentro la donna.
Non a caso, il regista spagnolo utilizza questa sequenza per eludere la rappresentazione di un rapporto sessuale tra Benigno e Alicia, la donna in coma. Lo stato di impotenza rispetto alla propria vita e alla possibilità di essere amato da parte dell'infermiere, si traducono in un atto di violenza da lui percepito, invece, come una sublimazione all'angoscia esistenziale che gli preclude e gli precluderà sempre la possibilità di essere “all'altezza” della donna amata.
Nello stesso modo, Carrey è consapevole della propria condizione di impotenza e di asessualità nei confronti della moglie, che in effetti appare quasi sollevata quando viene convinta che il marito sia stato divorato dal gatto.
A questo punto del film inizia la vera e propria lotta per la sopravvivenza, in un ambiente in cui persino delle gocce d'acqua rappresentano una minaccia, in cui non c'è più modo di far udire la propria voce, in cui un ago si trasforma in lancia. In queste sequenze è importante sottolineare anche l'abilità tecnica di Jack Arnold e dei suoi addetti agli effetti speciali Cliff Stein e Charles Baker, che non utilizzano blue-back, ma dispongono attori in prospettiva, sfruttano giganteschi set della Universal, trasparenti, mascherini. Grant Williams recitò il proprio ruolo di protagonista seguendo battute di metronomo, come un balletto, per essere in sincronia con gli elementi ripresi in dimensioni reali ed inseriti in post produzione. Un lavoro che pur mostrando i segni della propria età, tutt'oggi resta affascinante e sorprendente, se visto nella prospettiva dei mezzi d'epoca.
Infine, Scott resta abbandonato a sé stesso, ormai sufficientemente piccolo per sfuggire alla trappola della cantina ed avventurarsi nel mondo esterno. Il finale presenta un monologo aggiunto da Matheson o, si dice, da Orson Welles, che prestò la propria voce per tutti gli interventi fuori campo.
“...Era il premio della mia vittoria, mi avvicinai a lui ebbro di gioia. Avevo vinto. Vivevo. Ma appena toccai le secche, ammuffite briciole del cibo... fu come se il mio corpo non esistesse più, era sparita la fame, sparito il terrore di rimpicciolire. Avvertivo di nuovo il senso dell’istinto, di ogni movimento, il pensiero si intonava con la forza dell’azione.... Ma sarei ancora rimpicciolito, fino diventare cosa? Un infinitesimale? Cosa ero io? Ancora un essere umano? O forse ero l’uomo del futuro? Se ci fossero state altre irradiazioni, altre nuvole attraverso mari, continenti, mi avrebbero seguito altri nel mio nuovo mondo? Sono così vicini l’infinitesimale e l’infinito. Ma ad un tratto capii che erano due termini di un medesimo concetto. Lo spazio più piccolo e lo spazio più vasto erano nella mia mente i punti di unione di un gigantesco cerchio. Guardai in alto come per cercare di aggrapparmi al cielo: l’Universo, mondi da non finir mai, l’arazzo argenteo di Dio sul cielo notturno. E in quel momento trovai la soluzione all'enigma dell’infinito: avevo sempre pensato nei limiti della mente umana, avevo ragionato sulla natura; l’esistenza ha principio e fine nel pensiero umano, non nella natura. Sciogliersi, diventare il nulla, le mie paure svanivano, e venivano a sostituirle l’accettazione. La vasta maestà del creato doveva avere un significato, un significato che io dovevo darle. Sì. Più piccolo del più piccolo avevo un significato anch'io. Giunti a Dio non vi è il nulla: io esisto ancora.”
In questo senso, la visione di Pascal sulla condizione umana viene espressa pienamente. Matheson si è sempre dichiarato ateo, quindi si suppone che il riferimento a Dio sia stato inserito per volere della casa di produzione (benché più fedele alla filosofia di Pascal, come risposta alla posizione mediana dell'uomo rispetto ai due infiniti). Nel finale del libro, egli parla di universi dentro ad universi che, considerando il metro come termine di misura prettamente umano, rende chiaro che in natura non esistano zeri. Solo cicli infiniti. Questa visione atarassica della vita sembra risolvere la mediocrità e l'angoscia esistenziale del protagonista, consegnandolo ad una condizione di vita più consapevole, ma totalmente al di fuori della nostra portata.
Una visione filosofica ed esistenzialista che sembrerebbe non aver spazio in un b-movie di fantascienza degli anni Cinquanta.
Con questo film Jack Arnold riporta la centralità della riflessione sociale e politica dell'epoca sul suo punto focale: l'uomo e la percezione di sé stesso rispetto all'universo, forse troppo grande ma, probabilmente, anche troppo piccolo per essere davvero compreso e dominato.
Andrea Brena
Direi di correggere alcuni errori evidenti nel titolo e altre cose. Dai...PROFESSIONALITÀ