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GUIDA SACRILEGA PER AMANTI DI VAMPIRI, PARTE 2: FOCUS SULLA MORALE DEVIATA CONTEMPORANEA 



Nel corso della prima parte di questo articolo, ci siamo concentrati sulla storia e la definizione classica della figura del Vampiro al cinema: stereotipi, iconografia ed evoluzione nel corso del secolo scorso. In particolare è importante sottolineare come dalle prime rappresentazioni (in cui il Mostro è male assoluto) si sia approdati ad un ritratto più umanizzato del Vampiro e proprio tale approfondimento sull'aspetto soggettivo ed interiore ha permesso a cineasti contemporanei di dare letture più personali e complesse al personaggio. O addirittura di declinarlo in generi distanti dal dramma e dall'horror puro.


Il primo e più fondamentale aspetto messo in discussione dal cinema contemporaneo sull'esistenza vampiresca è la moralità del soggetto rispetto al proprio bisogno di sangue: mera esigenza biologica, peccato inaccettabile o vero e proprio piacere della caccia e dell'uccisione?


Questa tensione etica e morale è messa in scena magistralmente nel già citato “Intervista con il Vampiro” (Jordan,1994): il punto cruciale della dicotomia tra il protagonista Louis e colui che lo ha generato, Lestat, sta proprio nella differente concezione etica che attribuiscono all'uccisione di esseri umani, per nutrirsi del loro sangue. Il personaggio interpretato da Brad Pitt è caratterizzato dalla pena, dal rimorso e dal profondo attaccamento che continua a nutrire per la vita: arriva a cibarsi di topi, di cani, piuttosto che macchiarsi di omicidio. Questo atteggiamento genera invece l'ilarità di Lestat, che non solo prova piacere nella caccia e nell'uccisione di dame, giovani, intere famiglie, ma si ritiene un essere superiore destinato ad occupare un ruolo predatorio superiore nella catena alimentare. Il vampiro impersonato da Tom Cruise non fa altro che affermare la propria natura, di cui l'omicidio è parte fondamentale, se non un vero e proprio piacere da soddisfare. Louis è chiaramente obbligato ad accettare la propria necessità di nutrirsi di sangue, ma per tutto il corso del film la propria natura e il rispetto che continua a nutrire per la vita lo permea di un alone di tristezza che si rivela fondamentale nella definizione del personaggio e nel processo identificativo che lo spettatore prova nei suoi confronti, voce narrante e principale punto di vista sulla vicenda.


Tale argomento e dualità ritorna con ancor più forza in “Thirst” (Park Chan-Wook, 2009). Il protagonista Sang-Hyun, un prete cattolico, si offre volontario per la sperimentazione di un vaccino per un virus letale. L'esperimento fallisce e l'uomo in fin di vita riceve una trasfusione di sangue, dopo la quale si riprende completamente. Ben presto si rende conto che la miracolosa guarigione è dovuta alla trasformazione in Vampiro e che è proprio bevendo sangue che può contenere i sintomi del VE. Sang-Hyun proviene da una cultura come quella cattolica che condanna profondamente l'omicidio, come tutte le pulsioni che egli sente crescere in sé con il passare del tempo. Preda dei sensi di colpa si confronta con il proprio padre spirituale, domandando come fare a procurarsi sangue senza uccidere. Egli risponde “Primo. Il Signore ha detto di non preoccuparsi di quello che si mangia. Poiché Egli nutre persino gli uccelli nel cielo.” e affermando ciò offre al vampiro il proprio sangue, per permettergli di nutrirsi senza commettere omicidio. Da questo momento Sang Hyun inizia a cibarsi di sangue trafugato all'ospedale o rubato a soggetti in fin di vita o in stato comatoso. Finché incontra Tae-Ju, succube di un marito malato e di una suocera opprimente, che instaura con il prete una relazione sessuale, fino a scoprire la vera natura di lui. Rifiuta di fuggire insieme e propone di uccidere il marito, evento che causerà un ictus e lascerà paralizzata la suocera, la Signora Ra. Si tratta di una vera e propria trasposizione di “Therese Raquin”, opera di Emile Zola, in cui il senso di colpa per l'omicidio perseguita gli amanti fino ad allontanarli. Sang-Hyun rifiuta di trasformare altri in vampiri, continua a nutrirsi senza commettere altri omicidi, finché si trova a dover scegliere se salvare Tae-ju dalla morte. Egli trasforma la compagna, incapace di lasciarla andare, ma dà vita ad un mostro spietato, un vampiro perennemente a caccia, che non prova nessun rispetto per la vita umana. I colori si desaturano e la distanza tra i due aumenta, tra ulteriori omicidi e accuse, fino al finale in cui il prete sceglie (per entrambi) il suicidio: al sorgere

del sole, togliendo ogni rifugio alla malvagia compagna, la coppia si lascia bruciare e si affida all'Inferno, in cui Sang-Hyun crede, sotto lo sguardo appagato della signora Ra, che vede finalmente vendicato il proprio figlio. Il senso cattolico di colpa ha il sopravvento sulla natura stessa del Vampiro: egli non può vivere nel peccato, sceglie la via della punizione eterna.


Sempre su morale e filosofia verte il complesso e raffinatissimo film “The Addiction” (Ferrara, 1995). Il regista sceglie di rappresentare questa storia di vampirismo in bianco e nero, con una fotografia straordinaria di Ken Kelsch, in cui sono gli opposti, le dicotomie filosofiche ed esistenziali a permeare completamente l'opera. Kathleen Conklin è una studentessa di filosofia e si interessa all'origine del Male: viene tramutata in vampiro da Casanova, una splendida Annabella Sciorra, e il suo percorso di trasformazione si costella di riflessioni esistenzialiste che coinvolgono filosofi da Kierkegaard a Cartesio. La protagonista afferma, osservando corpi morti ritrovati in un lager: “Finalmente ho capito cosa c'è dietro a tutto questo, cosa è stato a renderlo possibile, adesso capisco Signore la mostruosità che c'è dentro di noi. La nostra droga è il Male, la nostra propensione al Male risiede nella nostra debolezza. Kierkegaard aveva ragione: c'è un orribile precipizio davanti a noi. Non sbagliava riguardo al salto. Non c'è differenza tra saltare ed essere spinti. Si arriva al punto in cui si è costretti a fare i conti con i propri bisogni, l'incapacità di gestire fino in fondo la situazione crea un'insopportabile ansia. Non è cogito ergo sum. Bensì dedito ergo sum. Pecco ergo sum”. Ma anche: “La dipendenza è una cosa meravigliosa, per l'anima è meglio di qualsiasi formulazione di concetti intellettuali”.


La sete di sangue della protagonista non sembra poter essere saziata, anzi la pone ad un livello superiore, in cui crede di aver trovato la vera natura dell'essere umano in una vera e propria propensione al Male. Non c'è salvezza, ma solo la consapevolezza di ciò che dolorosamente si scopre di essere. Quindi sangue come droga, tentativi di disintossicazione ad opera di Peina, vampiro integrato ed in grado di controllare la fame con la volontà. Il dolore che il personaggio interpretato da Lili Taylor pare la giusta punizione per la propria appartenenza al Male e al peccato. 


Prima di una carneficina, Kat dichiara: “La dipendenza ha una duplice natura, da un lato soddisfa lo stimolo che scaturisce dal Male, ma dall'altro ottunde la percezione, cosicché viene meno la coscienza del nostro stato. Si beve per ottundere la coscienza di essere alcolisti, l'esistenza diviene ricerca di sollievo dal vizio e il vizio è l'unico sollievo che possiamo trovare”. La giustificazione del Male è la stessa del vizio, un'assuefazione senza soluzione, senza via di uscita. Abel Ferrara non parla più di natura del vampiro, ma di accettazione del vizio, dell'orrore, quasi fosse una droga, un limite della volontà. Il discorso passa da un piano meramente morale ad uno ontologico, che riguarda la natura umana, di cui il vampirismo è mera metafora e rappresentazione. La dichiarazione esplicita dell'impossibilità del bene. 


Kathleen infine sceglie di confessarsi e ricevere la Comunione da un prete: scevro dal significato cattolico, Ferrara sembra dirci che è il libero arbitrio a consegnarci o meno al Male. Non si tratta di una condanna, ma di una scelta. Così una Kathleen fanstasma, o rediviva torna sulla propria tomba, affermando:“Affrontare ciò che siamo veramente. Ci esponiamo alla Luce e la nostra natura viene rivelata. L'autoconoscenza è la natura del Sé”. Il vampiro è tossicità, dipendenza dalla malvagità, vizio corruttivo che si rivela, come i salvati, solo alla Luce (di fronte a cui può solo perire o nascondersi). 


In questo modo, il regista si ricollega al monologo iniziale del professore della protagonista: “Un aspetto del determinismo si manifesta nel fatto che i non salvati non riconoscono il peccato nella loro vita. Non ne sono consapevoli. Non soffrono del rimorso della coscienza perché non riconoscono che il male esista. Questo perché sono tutti predestinati all'inferno e perciò non raggiungono mai la luce della metanoia o conversione. Questa è un'opera della grazia che tocca solo ai credenti e perciò considerando l'aspetto salvifico che sta nell'affrontare la colpa, la sofferenza è un bene. Dovremmo tutti sentire la colpa e la sofferenza in modo da cercare il perdono e con esso la libertà”.


I nostri Vampiri afflitti da senso di colpa sembrano poter aspirare alla libertà. Ma in un altro senso sembra che la condanna sia già stata emessa, che di fronte alla colpevolezza e al Male universale sia inutile rinnegare la propria natura. Questo è il quesito morale più interessante che permea tutta la moderna filmografia sul vampirismo.


In diverse pellicole riscontriamo un'opposizione tra personaggi che, come nei già citati “Intervista con il Vampiro” e “Thirst”, rappresentano estremi morali nel rapporto con la fame e l'istinto predatorio. Ad esempio, “Il buio si avvicina” (Bigelow, 1987), Caleb è un ragazzo di campagna che incontra per caso Mae, una vampira, se ne innamora e viene da lei trasformato a sua volta. La donna viaggia insieme ad un gruppo di altri vampiri, una coppia, Jesse e Diamond Black, un sadico di nome Severen e un crudele bambino, Homer. Per completare la propria trasformazione, Caleb deve procurarsi da solo del sangue per nutrirsi. Il ragazzo, risucchiato in un'orgia di violenza e crudeltà da parte del branco, non riesce ad abbandonare la propria umanità e continua a nutrirsi del sangue di Mae. La tensione tra il gruppo e Caleb raggiunge il proprio apice quando sono proprio il padre e la sorellina del protagonista a finire nel mirino dei vampiri. Questo scatena una vera e propria guerra tra predatori e “prede” che porta alla distruzione del gruppo e alla salvezza di Caleb e Mae: possono tornare ad essere umani, a rivedere il sole, quasi l'amore e la bontà d'animo potessero redimere anche le anime perdute, che possono tornare a mostrarsi alla Luce, che come sosteneva la Kathleen di Abel Ferrara, rivela la loro natura.


Questa dicotomia tra moralità ed immoralità, viene spesso messa in scena utilizzando due sorelle vampirizzate come estremi della forbice. Sia in “Kiss of the Damned” (X. Cassavetes, 2012) che in “Solo gli amanti sopravvivono” (J. Jarmusch, 2013), la vita delle protagoniste, rispettivamente Eva e Djuna che ormai convivono con gli umani nutrendosi di sangue animale, o rubato dagli ospedali, oppure cacciando animali, vengono sconvolte dal ritorno delle sorelle minori, Ava e Mimì, feroci, incoscienti, assetate di sangue umano, insitamente malvagie come lo possono essere dei ragazzini crudeli. In entrambi i casi sarà lo status quo, la fazione “adulta” a vincere, o a preservare una sorta di codice comportamentale, rispetto alle sorelline ribelli che però, in un certo senso, sembrano descrivere meglio la parte animalesca propria della figura del vampiro, in un contesto di integrazione quasi forzata con l'essere umano. Le giovani assassine rivendicano la propria natura malvagia, la propria origine mostruosa. Pecco ergo sum.


Un ultimo esempio anomalo è rappresentato in “Byzantium” (Jordan, 2012) dove ad opporsi sono madre e figlia. Nessuna delle due però rappresenta l'essenza animalesca e predatoria del vampiro. Clara, la madre, diviene vampiro dopo una vita di sfruttamento e prostituzione, come gesto di ribellione per salvarsi dalla tisi e da una società maschilista, in cui la donna viene mercificata. E proprio trasformandosi, infrange anche le regole del mondo vampiresco, da cui le donne sono escluse. Trasformando anche la figlia Eleanor, per poterla finalmente avere accanto, inizia una vita in fuga, in cui sembra più preda che predatrice, inseguita dai vertici della società vampiresca, che vuole eliminare entrambe. Eleanor, interpretata da Saoirse Ronan, vive la propria natura con sofferenza, inconsapevole degli inseguitori alle calcagna, ma alla continua ricerca di un senso nel proprio passato. Soddisfa la propria sete bevendo il sangue di coloro che hanno già di fronte solo la morte, anziani e ammalati, ammantandosi dell'aura di un Angelo della Morte agognato ed abbracciato dalle vittime. Clara invece scatena la propria fame su uomini, sfruttatori e su coloro che scoprono la verità sulla natura propria e della figlia. Una Vendicatrice, ma anche una Madre assoluta che ha come unica finalità la salvezza della propria famiglia. La Pace e la Furia.


Come afferma la dodicenne vampira Eli, protagonista di “Lasciami entrare” (Alfredson, 2008), dopo aver fatto ammettere all'amico coetaneo Oskar, vessato e bullizzato; che sarebbe capace di uccidere per vendetta: “Io lo faccio (uccidere) perché devo, mettiti al mio posto per un po'...”. Nonostante le questioni morali, il Vampiro non può non uccidere.


Proprio con pellicola svedese, mette in luce un altra questione estremamente inquietante che nelle moderne rappresentazioni di vampiri è emersa di frequente: la figura del Vampiro-Bambino. Nel film diretto da Alfredson, Eli ha solo dodici anni, dipende dal padre che si occupa di procurarle sangue e rifugio. Fa amicizia con Oskar, un bambino coetaneo molto solo e vittima di bullismo, con cui intraprende un'acerba storia d'amore. La ragazzina ripete spesso che ha dodici anni da molto tempo e nonostante il giovane aspetto, si rivela una killer spietata e feroce. Quando perde il padre, sceglie Oskar come compagno, andandosene dalla cittadina in cui ha seminato morte e vendetta. Il regista sceglie di non affrontare l'evoluzione psicologica di una ragazzina che, in realtà, ha un'età anagrafica ben diversa da quella dimostrata, a differenza di Neil Jordan in “Intervista con il Vampiro” e di Kathryn Bigelow in “Il buio si avvicina”


Jordan traspone la figura di Claudia, interpretata magistralmente da una giovanissima Kristen Dunst, una bambina di meno di 10 anni, che viene vampirizzata da Lestat e Louis, rendendola un'eterna bambola. Nel corso degli anni, la ragazzina inizia ad essere stanca del proprio ruolo di bambina, dei balocchi, dei boccoli biondi: aspira ad avere un corpo da donna, vivere sensazioni ed esperienze adulte, che le sono precluse proprio per via dell'aspetto infantile. Questa insoddisfazione insanabile, unita alla ferocia propria di un bambino, la portano a scontrarsi proprio con Lestat e a tentare di ucciderlo. Quando comprende che Louis sta per lasciarla, sceglie una donna che le possa fare da madre come compagna. Quella di Claudia è la figura più tragica di tutto il film di Jordan: giunge a tratti a creare un'inquietudine che si avvicina alla pediofobia, mostrandosi come una maschera perfetta di porcellana, dietro la quale si nasconde non solo un mostro, ma anche una maturità secolare incapace di esprimersi e sbocciare in quel corpicino immutabile.


Meno profondo, ma altrettanto inquietante è il personaggio di Homer, il malvagio bambino della tribù di vampiri rappresentata in “Il buio si avvicina”: arrabbiato e pericoloso, sceglie la sorellina del protagonista Caleb come compagna, pretendendo che gli sia concessa la compagnia di una femmina coetanea. Sarà proprio questa la miccia che farà esplodere il conflitto finale. Inquietante e malvagio, il personaggio sembra tratteggiato sulla falsariga di Claudia, ma il film non concede spazio ad un approfondimento psicologico più profondo. 


Certamente emerge con prepotenza un'ultima tematica ricorrente, già accennata nel precedente articolo dalle parole di Klaus Kinski nei panni del Nosferatu di Herzog: il rapporto con l'eternità.


Il film che in assoluto descrive meglio e in modo estremamente poetico questa problematica è “Solo gli amanti sopravvivono”, diretto da Jim Jarmusch. Adam vive a Detroit, è un musicista (Con un certo non so che di Syd Barrett), abita solo nel suo loft, si procura il sangue in un ospedale, utilizza un umano per reperire chitarre o altri oggetti. È depresso, è annoiato, l'eternità dopo i salotti di Byron e Shelley, dopo una vita di incontri e dissolutezza, ora che il sangue umano è inquinato, non sembra più avere senso. Sua moglie, Eva, amica di Kit Marlow (scippato delle proprie opere da un tale William Shakespeare), vive a Tangeri circondata dai suoi libri: quando capisce che Adam potrebbe volerla far finita (con pallottole in legno) corre da lui. I due si confrontano sull'eternità, sull'arte, sulla natura, visitano ogni luogo nascosto e vivono la sua storia, che in un certo senso è parte della loro. La noia, lo spleen dell'eternità pervadono tutto il film, trascinando Adam in un vortice depressivo e lasciando a Eva il compito di fare riscoprire al compagno gusti, sapori, percezioni che solo un vampiro può avere. E dopo una vita insieme, dopo la consapevolezza di non poter più vivere ai margini dell'umanità, il film si conclude con il ritorno all'origine: la caccia, insieme. Un film riflessivo, fatto di oggetti, aneddoti, sensazioni, musica, natura, arte, che si dimostrano l'unica cura per una vita stanca ed eterna. Ma la realtà è che sta proprio nell'unione della coppia, che cogliamo in quasi tutti i film finora citati, il vero equilibrio che permette al singolo di

vivere per sempre. Insieme al brivido della caccia. Il Vampiro non può negare, di nuovo la propria natura: significa vivere in eterno in una gabbia. 


Altro esempio di rapporto con l'eternità può essere scovato in “Miriam si sveglia a mezzanotte” (T.Scott, 1983). Catherine Deneuve interpreta Miriam, vampiro di 4000 anni, che cerca un compagno. Quando lo trova, questi, trasformato, ha un tempo limitato per vivere prima di iniziare ad invecchiare e finire in una cassa, decomposto ma pur sempre vivo, fino alla fine dei tempi. Mentre Miriam cerca un nuovo amore. David Bowie interpreta John, compagno di Miriam da anni, che scopre i primi sintomi del processo che sa bene lo porterà alla fine. Nella sua angoscia cerca risposte in Sarah (Susan Sarandon), medico che studia l'orologio interno degli esseri viventi, i processi di improvviso invecchiamento. Ma nulla lo salva dal suo destino, la dottoressa si rivela il nuovo amore di Miriam. Ma Sarah non vuole essere un vampiro, Sarah cerca di togliersi la vita. Nell'ostinazione di continuare una vita eterna, mai in solitudine, Miriam si trova a scontrarsi con le anime prosciugate dei suoi amori, ancora vivi e putrefatti, che la aggrediscono e mettono fine alla sua esistenza. O meglio, si liberano, relegando lei ad una cassa senza via d'uscita, mentre sarà Sarah a continuare a vivere, eterna come una regina, in cerca di compagni con cui condividere l'eternità. 


Come in “Kiss of the damned”, l'erotismo e la brama di sangue prende il sopravvento nel rapporto del vampiro con il proprio partner, quasi l'esistenza o il ritorno dalla morte, dipenda da un compagno sessuale, ma non solo. Qualcuno che alimenti emotivamente e protegga il vampiro, affidandosi con esso all'eternità così infinita e insopportabile. 


Infine, il vampiro è stato utilizzato nel cinema anche come metafora politica. Godard dichiarò: “... nessuno ha mai fatto un film su uno sciopero in una fabbrica adoperando Dracula, per dire. Cosa che invece potrebbe essere molto utile... O un film sulla mafia... Voglio dire: succhiare il sangue o rubar denaro, non c'è poi mica tanta differenza”.


Proprio di questo tratta “El Conde” (Larrain, 2023): Auguste Pinochet è un vampiro di 250 anni. È nato durante la rivoluzione francese ed è sempre rimasto fedele all'Ancien Régime, tanto da conservare in formalina la testa di Marie Antoinette. Ha spodestato Salvador Allende ed è divenuto dittatore del Cile. Quando lascia l'incarico, mentre le autorità cercano le sue ricchezze sottratte al paese, egli si finge morto e, invecchiato, e si è rifugiato in un ranch con la moglie Lucìa. Sembra arrivato alla fine, quindi i figli convergono alla dimora paterna per spartirsi le ricchezze. Ma, complice l'intervento di una suora che si finge contabile per conto della Chiesa, di cui egli si innamora, e del ritorno della vera madre del Conte, Margareth Thatcher, gli eventi prendono una piega tragicomica. 

Larrain ricollega il vampirismo ai partiti di destra, alla Chiesa, all'Ancién Regime, ai conservatori inglesi. Poetica la scena in cui la suora ormai vampirizzata vola sopra il ranch: nessuno è salvo dalla corruzione dello spirito. Ovviamente Auguste sopravvive e insieme alla madre ricomincia una nuova vita, di nuovo bambino. Come se la corruzione, insieme al vampirismo sia un morbo indebellabile. Si tratta di una lettura molto interessante ed ironica, come il dialogo che Pinochet ha con il proprio aiutante, in cui dichiara: “Siamo bestie della notte” 

“E la notte è fatta per i ladri... e lei lo è sempre stato, a me piaceva uccidere e a lei piaceva rubare” “No anche a me piaceva uccidere, però io non posso vivere come un bifolco, Fëdor, ho bisogno di camminare su una roccia o una cosa di cemento o qualcosa di solido. Mi serve gente che mi aiuti, ho bisogno di servi come te. Mi costa lavare le lenzuola sporche...”.

Sullo stesso piano, anche se in modo più mainstream, possiamo classificare “La leggenda del cacciatore di vampiri” (Beckmambetov, 2012), in cui Abramo Lincoln si rivela cacciatore di vampiri, contrapposto ai “succhiasangue” sudisti. La metafora è più che evidente.


Altro esempio politico di come la figura del vampiro possa essere rappresentativa di una minoranza in cerca di voce è il meraviglioso “A girl walks home alone at night” (Amirpour, 2014). Ci troviamo in Iran, tra donne costrette a prostituirsi, che devono indossare il chador per uscire di casa e anche tra giovani costretti a sacrificarsi per realizzare i propri sogni in un ambiente dominato da ricchi spacciatori di droga. La ragazza, protagonista, è un vampiro e già il suo abbigliamento la rende iconica in ogni incontro che sperimentiamo con lei in questo film in bianco e nero: una maglia a righe, pantaloni neri e chador. Il nostro punto di vista è quello di un ragazzo, Arash, che dopo aver perso la propria auto per colpa del padre drogato Hossein, avvicina la donna (travestito da Dracula) in un night club. La vampira senza nome diventerà vendicatrice e punirà lo spacciatore creditore di Hossein e anche il padre stesso. In questo modo libera il ragazzo e reclama un potere femminile negato nei paesi Islamici. Bad City diviene una zona di confine, quasi si trattasse di un western, in cui gli amanti possono vendicarsi e fuggire, una terra di nessuno dove il potere femminile può imporsi sulle restrizioni e la civiltà maschilista. Lo fa in un tono fumettistico, ornato da una colonna sonora di grande impatto, ma dichiara un messaggio politico: un reazionismo femminista e non solo, una visione fiabesca in cui non è il patriarcato a vincere su tutto.


Dopo aver esaminato le principali tematiche legate al vampirismo nel cinema contemporaneo, è importante anche elencare i generi in cui esso è stato trasposto. A volte persino snaturando l'essenza stessa dell'archetipo Vampiro.


La Hammer per prima, vista la china discendente presa dalle proprie produzioni, tenta di rilanciare la figura del Vampiro con temi più erotici: ottimo esempio è “La regina dei vampiri” (Young,1972) film di buona fattura in cui, dopo un'iniziale sequenza erotica, vengono messi in scena numeri circensi assolutamente affascinanti, giochi di specchi e, forse per la prima volta, l'uccisione di bambini. 


Ma soprattutto la fantascienza ha cavalcato l'onda del vampirismo, mettendo in scena film come “Space Vampires” (Wilson, 1985) in cui i vampiri si rivelano creature aliene in grado di risucchiare energia vitale dagli esseri umani, come anche “L'ultimo uomo della Terra” (Ragona, 1964) e uno dei suoi sequel “Io sono leggenda” (Lawrence, 2007), nei quali un'epidemia globale tramuta i contagiati defunti in vampiri. In questo caso, la sovrapposizione tra vampiro e zombie diventa molto sottile, deprivando il vampiro da quelle caratteristiche umane che ne hanno sempre definito la figura letteraria e cinematografica. Altro titolo pulp, “Dal tramonto all'alba” (Rodriguez, 1996), mette in scena un'assurda e divertentissima lotta di sopravvivenza tra gli avventori di un bar e i vampiri che lì si rivelano in modo folle e truculento.


Giungiamo dunque alle saghe riguardanti la figura del vampiro.

La più conosciuta è forse quella iniziata con “Twilight” (Hardwicke, 2008), in cui i Cullen sono una famiglia di vampiri (tutti bellissimi), che vivono in una casa stupenda, e il cui figlio Edward si innamora di Bella (goffa, umana, appetitosa). Questa storia d'amore contrastato dalle diverse nature (e arricchita dalla scena in cui il vampiro si rivela al sole, mostrando una pelle luccicante di glitter), si dipana in vari film, in cui nulla di nuovo viene esplorato e in cui tutto ciò che ammanta il vampirismo di fascino sembra messo da parte per un fan service gradito ai sostenitori della coppia. 

“Blade” (Norringhton, 1998), Blade II (Del Toro, 2002), Blade Trinity (Goyer, 2004), si limitano a mettere in scena la lotta “marvelliana” tra un vampiro mezzo sangue e una casta corrotta di vampiri, con un Wesley Snipes tra il divertito e il divertente, che si limita a trucidare succhiasangue con l'aiuto dei vari comprimari. Stessa cosa possiamo dire di “Underworld” (Wiseman,2003), in cui la guerra si svolge tra vampiri e licantropi, in un'ambientazione action ma scevra da grandi spunti di analisi. 


Dal lato commedia, invece, gli esiti sono stati ben più interessanti. Partendo dalla parodia dei film Hammer “Per favore non mordermi sul collo!” (Polanski, 1967), che sfrutta i capisaldi del genere (già analizzati nel precedente articolo), per darne una lettura farsesca ed esilarante.

Interessante la rilettura del vampiro in chiave commedia è “Dark Shadows” (Burton, 2012), in cui Barnabas, interpretato da Johnny Depp, si libera dalla tomba a cui è stato condannato dalla strega Angelique (Eva Green) e decide di riportare ai fasti di un tempo la propria famiglia. Un susseguirsi di scene esilaranti, tra cui i luoghi eletti a bara dal vampiro, le scene di sesso con la Green, le apparizioni di Alice Cooper e tutti gli equivoci conseguenti. Un film leggero, supportato con ironia da Depp, che mostra lo straniamento di un uomo che si risveglia nel mondo moderno, travisando in modo delizioso ogni situazione, pur senza perdere il ruolo di eroe romantico, circondato da una famiglia strana ed insolita, in un contesto paradossale che rende la pellicola un piacevolissimo passatempo.


Il lavoro più interessante, secondo chi scrive, è però “What we do in the shadows” (Waititi, 2014), mockumentary che descrive la vita di quattro vampiri che convivono in Nuova Zelanda. Tra nevrosi, problemi di pulizia della casa, uscite serali, umani trasformati e non, Waititi e Clément (sceneggiatori) mettono in scena i capostipiti del genere: Viago, il vampiro à la Byron, Vladislav ispirato al Dracula di Stoker, Deacon il vampiro moderno e Petyr, alias Nosferatu. Le gag sono irresistibili, le dichiarazioni in macchina, abbinate ad un montaggio intelligente ed ironico, trasformano il film in una commedia delirante: in cui il problema è sporcare di sangue il divano, le risse sono sotto forma di pipistrelli, le riunioni tra coinquilini sono all'ordine del giorno, le didascalie ci garantiscono protezione della crew con crocefissi e aglio. Talmente geniale da aver dato origine ad una serie spin off.


Ci sarebbero ancora mille film da citare, per non parlare delle serie tv. Non si è sfiorata nemmeno lontanamente un'analisi completa ed esaustiva sulla figura del vampiro al cinema.  Ma resta il fatto che esso è per lo più, e soprattutto una creatura fatta della luce di un proiettore. Che vive sempre al buio delle sale e che in qualche modo sa morderci, in qualsiasi forma, e portarci nel suo mondo oscuro. Ormai molto più umano che bestiale. Non abbiamo più paura dei vampiri. Ne osserviamo le gesta e a volte ci sentiamo parte delle loro schiere. Per il tempo limitato di una proiezione. Perché ormai sono diventati metafora della nostra morale ingorda, delle nostre pulsioni segrete e del nostro bisogno di essere, in qualche modo, immortali.


Andrea Brena

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