The Shrouds - David Cronenberg
- Stefano Berta
- 3 apr
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Dopo il grande ritorno sugli schermi di qualche anno fa con "Crimes Of The Future" David Cronenberg fa nuovamente capolino nei cinema con uno dei suoi progetti più personali e sentiti in assoluto, dalle forte connotazioni autobiografiche.
Il soggetto di "The Shrouds", questo il titolo dell'ultima fatica del regista canadese, parte da un innesto di trama tanto semplice quanto accattivante: Krash (Vincent Cassel) che per l'occasione assume in tutto e per tutto, sia nel vestiario, sia nel linguaggio, che dal punto di vista fisico, le fattezze dello stesso Cronenberg, è un imprenditore di successo che ha fatto la propria fortuna nella creazione di lapidi d'avanguardia, che attraverso una particolare tecnologia hi-tech, controllata a sua volta da un app, permette ai vivi di osservare il corpo in decomposizione dei propri cari; ecco però che quando tutto sembra isntradarsi verso una determinata direzione, un atto vandalico ai danni del cimitero coinvolgerà il protagonista all'interno di una subdola cospirazione pronta a comprometterne tutte le sue più granitiche certezze.
Così come nel lavoro precedente, Cronenberg, scava nei meandri delle sue opere più rappresentative tornando a parlare del corpo ma in maniera del tutto differente rispetto al solito; se in film come Existenz, The Brood, Rabid o Videodrome il regista affrontava la tematica del corpo umano come epicentro dei cambiamenti sociali che attraversavano la sfera politica e sessuale dell'individuo, quest'ultimo abbraccia del tutto la dimensione voyeuristica, dove l'osservazione del corpo e della morte diventano un atto di puro estetismo, di autocompiacimento, in cui gioca un ruolo fondamentale l'avvento travolgente e distopico delle nuove tecnologie.
Krash, del tutto inadeguato nel procedere con la propria vita, cerca nel passato, nelle copie (non è un caso il duplice ruolo ricoperto da una magnetica Diane Kruger, che veste allo stesso tempo i panni della moglie di Krash e di sua sorella) e nel rapporto con le intelligenze artificiali un appiglio grazie al quale andare avanti, grazie al quale rideterminarsi in quanto essere umano, sostituendo la carne e i legami emotivi ad un idea astratta di una vita aleatoria e consolante che intravede nella digitalizzazione l'elemento salvifico in sostituzione a mancanze affettive materiali.
Il superamento del lutto è solo una delle tante tematiche che Cronenberg si impone di raccontare all'interno di The Shrouds, un opera decisamente tra le più sfidanti e ostiche che abbia mai regalato al pubblico all'interno della sua sterminata produzione cinematografica, in un connubio di discorsi e riflessioni che se da una parte sembrano tradire le credenze e i punti cardine della sua poetica, dall'altra ne sono invece la loro naturale evoluzione.
La "nuova carne", il "nuovo sesso" tornano ad essere la forza motrice che muove i fili e che qui si concretizza nel cospirazionsimo, unica ancora di salvezza in grado di dare lustro e vitalità a personaggi altrimenti vuoti ed inermi che trovano all'interno di quest'ultimo la forma di compiacimento più alta e viscerale in grado di risvegliare i loro impulsi più reconditi.
Forse un po troppo autocompiacimente, è invece in questo caso lo stesso Cronenberg, totalmente libero e slegato da qualsiasi paletto produttivo, scrive infatti il film seguendo un flusso di coscienza più intimo e personale che almeno in parte ne compromette la sostanza; troppi voli pindarici, troppi cambiamenti di ritmo e troppa carne messa sul fuoco rischiano infatti di confondere lo spettatore, non tanto per la quantità e la profondita degli elementi affrontati, quanto piuttosto per via della loro esecuzione.
È difficile prendere una posizione netta nei riguardi di quest'opera, non è un caso che a Cannes, dove lo scorso anno è stata presentata in concorso, abbia scisso a metà il pubblico tra chi l'ha detestata con ogni fibra del proprio essere e chi ne ha esaltato le gesta parlandone come di uno dei progetti più freschi e interessanti usciti nell'ultimo drcennio e dalla mia, invito caldamente a chi si recherà in sala a visionarlo di andare oltre i giudizi a caldo, lasciando invece sedimentare e fermentare un opera che, al netto di qualche difetto di troppo, parla a cuore aperto attraverso lo sguardo stanco ma ancora accesso e passionale di un autore che a suo modo è riuscito ad anticipare i tempi e il cinema ben più di una volta nel corso di cinquant'anni di carriera.
Potrebbe essere una delle delusioni più cocenti e inaspettate dell'anno o l'ennesimo prodotto d'avanguardia di un artista che per l'ennesima volta ha visto qualcosa prima di noi; ai posteri l'ardua sentenza.
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