Mission Impossible: The Final Reckoning - Cristopher McQuarrie
- Stefano Berta
- 2 giorni fa
- Tempo di lettura: 5 min

E’ finalmente (o purtroppo) arrivato il momento. Era il lontano 1996 - mia data di nascita peraltro – quando Brian De Palma imbracciò la macchina da presa realizzando il primo capitolo di quella che col passare del tempo è diventata una delle saghe più longeve e qualitativamente prestanti della storia del cinema action.
Ed eccoci qua, esattamente ventinove anni dopo a salutare definitivamente (?) Ethan Hunt e il suo team con quello che potremmo definire un epilogo dalla portata epica capace di coniugare in maniera superba intrattenimento e politica. Tom Cruise e colleghi ce l’hanno fatta di nuovo; ancora una volta, quello che a conti fatti possiamo considerare uno degli ultimi “last action hero”, sfida i propri limiti (e le leggi della fisica) realizzando assieme a Christopher McQuarrie, in quello che dai tempi di “Rogue Nation” è diventato un
vero e proprio sodalizio, un blockbuster roboante che trasuda amore e completa dedizione nei confronti della settima arte. Esplicitiamolo subito così da togliere di mezzo e a monte qualsivoglia tentativo di mettere in discussione la mia onestà intellettuale: “The Final Reckoning” non è un film completamente riuscito nella propria interezza.
Esattamente come il capitolo precedente, infatti, anche questo porta dietro di se i detriti di una produzione a dir poco travagliata: la riscrittura in corso della sceneggiatura per provare a raddrizzare le storture del film precedente causate dalle limitazioni imposte dal covid-19 prima, lo sciopero degli sceneggiatori che ne ha impedito la stesura per largo tempo poi, ed infine quello degli attori che per mesi interi ha immobilizzato la macchina produttiva tenendo a distanza dai set intepreti e troupe.Tutti impedimenti circostanziali che si riflettono inevitabilmente e in particolare in una prima parte introduttiva eccessivamente diluita e verbosa, che si perde e si ripete in qualche spiegone di troppo e in alcuni risvolti di trama/colpi di scena visibilmente fiacchi, implementati dall’alternarsi continuo di sequenze
estrapolate dai capitoli precedenti in nome di un fan service fastidiosamente didascalico e fine a se stesso che ben poco ha da spartire con un prodotto che al contrario, eccelle in modo pressoché ineccepibile in quelli che sono i suoi più grandi pregi.
Appurato quanto detto e lasciato da parte qualsiasi discorso relativo al personaggio di Gabriel - a mani basse il peggior antagonista che si sia visto all’interno della saga – concentriamoci ora invece sui punti forti di quello che, per quel che mi concerne, rappresenta uno dei lungometraggi più interessanti, stimolanti e intriganti che si siano visti in sala in tempi recenti. Cruise e McQ - d’ora in avanti li menzionerò insieme come se fossero un singolo individuo e per ovvie ragioni – prendono parzialmente le distanze dall’impostazione più metodica, lineare e rigorosa che contraddistingueva le sceneggiature dei capitoli precedenti, realizzando un film estremamente più teorico e concettuale.
“The Final Reckoning” è, prima di qualsiasi altra cosa, una profonda ed oculata riflessione politica sulla condizione sociale in cui versa la nostra società di riferimento, e in un epoca in cui il processo di digitalizzazione e il conseguente senso di preoccupazione e di timore ad esso legato, sembra imperversare procedendo a passo spedito prevaricando la centralità della materia, spetta proprio ad Ethan Hunt, un erore carnale, un umanista per eccellenza scongiurare la minaccia dell’IA, ponendo nuovamente l’essere umano al centro dell’equazione.
Mai come negli ultimi anni Tom Cruise ha incarnato in maniera esemplare
il concetto di corpo; i suoi folli, istrionici e ormai famigerati stunt sono soltanto una delle varie forme attraverso cui ciò si manifesta, rappresentando a conti fatti non più soltanto una forma sfrenata di megalomania compulsiva fine a se stessa, quanto più un impegno professionale dal sapore romantico volto a rivendicare e a determinare la forza della carne che vince sul digitale, il concreto sull’astratto, il linguaggio analogico su quello informatico. Non è un caso che Ethan, in questa sua ultima missione, sia chiamato ad intervenire contro un nemico invisibile, in un lotta uno contro uno che pone in antitesi uomo ed entità,
corpo umano e realtà virtuale, delineando un parallelismo allarmante e ahimè, estremamente realistico con la nostra dimensione quotidiana, dove l’avvento delle intelligenze artificiali sta iniziando via via a sollevare polemiche, oltre che dilemmi etico morali coi quali confrontarsi e con cui anche la macchina produttiva che gravita all’interno del mondo della settima arte sta man mano scendendo a compromessi.
A differenza di Tom Cruise, a quanto pare, che in un mondo in continua evoluzione e sempre più servile nei confronti di un qualcosa in grado di prestare ad esso ausilio, riesce ad aggiornarsi coi tempi che corrono ricontestualizzando e rivalorizzando il mezzo cinematografico attraverso la centralità dei corpi degli attori e la tangibilità di quanto portato in scena. Non è una forma di conservatorismo volta a demonizzare l’implemento della tecnologia all’interno delle nostre vite, ne tantomeno c’è la volontà da parte di chi ha
realizzato il film, di impartire in maniera moraleggiante e presuntuosa una lezione anacronistica che si chiude a riccio di fronte al progresso umano e la sua naturale evoluzione, al contrario, prende sempre più forma attraverso i dialoghi e i concetti espressi l’idea che quanto discusso sia invece una sorta di sensibilizzazione al corretto utilizzo dei mezzi di cui disponiamo.
Doveroso sottolineare che, fatto tesoro dei discorsi politici che il film si impone di affrontare lungo il tessuto narrativo, in “The Final Reckoning”, aldilà delle differenze coi capitoli precedenti esplicitate poco fa, continua ad avere una valenza fondamentale
l’attitudine hitchcockiana a cui la saga di Mission Impossible ha sempre fatto riferimento fin dal titolo capostipite - quelo si, diretto da uno dei figli artistici per eccellenza del cineasta britannico - e che qui viene sublimata in più di un frangente, in particolare all’interno di due macrosequenze action (una subacquea e una aerea) che rappresentano non soltanto la summa teorica e pratica di ciò che quel modo di narrare ha generato ed esprime, ma uno dei punti più alti toccati dal cinema di genere nella contemporaneità tutta. E’ inutile aggiungere ulteriore carne al fuoco, formulare giudizi e pensieri nei confronti del capitolo che si è preso sulle spalle l’onore e l’onore di scolpire la parola “fine” su una saga trentennale che col passare degli anni ha emozionato ed intrattenuto diverse generazioni, non rimane che andare in sala.
Fiondatevi nel vostro cinema di fiducia, trovate lo schermo piu grande e l’impianto audio più performante della vostra città, mettetevi comodi e lasciatevi trasportare dallo spettacolo coreografico, visivo, percettivo e concettuale che Tom Cruise e soci hanno preparato per voi, in quello che rappresenta, per impiego dei mezzi, sacrificio e ambizione, una delle più grandi lettere d’amore al mondo della settima arte. D’altronde ce lo dice la saga stessa: “«Viviamo e moriamo nell’ombra. Per chi ci sta a cuore e per chi non conosceremo mai»
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Stefano Berta
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