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La città proibita - Gabriele Mainetti


A distanza di quattro anni dall'ultimo lavoro e di dieci dall'esordio con cui ha catturato il cuore e l'attenzione degli appassionati di tutta la penisola, Gabriele Mainetti ritorna in sala con "La Città Proibita" entrando nuovamente a gamba tesa nell'attuale sistema produttivo cinematografico italiano.


Il regista di "Lo Chiamavano Jeeg Robot" e "Freaks Out" realizza un film peculiare sotto molteplici punti di vista e così come fece con le sue due opere precedenti decide di proporre qualcosa di nuovo, di coraggioso, andando in netta contrapposizione con un sistema, che ormai da molti anni a questa parte, sembra essersi arenato completamente tra commedie discutibili e drammi dimenticabili vari.


Il cineasta romano porta sul grande schermo il suo progetto, fin qui, più ambizioso, che sfrutta l'ingente budget (perlomeno per quelli che sono i costi di produzione del nostro territorio) a disposizione per regalarci un film di kung fu, in quello che si rivela essere un lungometraggio in cui convergono tutte le influenze e i generi che lo hanno cresciuto e formato; azione, dramma, commedia, si mescolano tra di loro portando alla luce un prodotto che qui in Italia, fatto in quel modo, ancora non si era mai visto e che difficilmente potrà passare inosservato nella stagione cinematografica corrente.


La regia di Mainetti si fa più solida e consapevole, così come l'estetica, che arrivati al terzo film sembra aver trovato un identità più chiara e riconoscibile in grado di restituire al dettaglio tutto lo sforzo creativo e produttivo che il regista italiano ha impiegato nella realizzazione di specifiche sequenze di combattimento, innescando nello spettatore la fortissima convinzione che quest'ultime non sfigurerebbero all'interno di produzioni oltreoceano tanto incensate come un Tyler Rake o un John Wick di turno, tanto per fare degli esempi.


"La Città Proibita" è un film che guarda al futuro, che abbraccia un cinema di genere che pone le proprie radici all'interno di produzioni orientali e statunitensi, ma che al tempo stesso riesce a conservare la propria cifra stilistica, restituendo allo spetattore la concreta consapevolezza di trovarsi di fronte ad un prodotto, si, fortemente citazionista, ma fortemente italiano in tutte le sue componenti.


Roma è il cuore pulsante del racconto e a conti fatti è la vera e propria protagonista del film; la capitale infatti viene descritta e inquadrata in tutta la sua maestosità, ponendo però la lente d'ingrandimento su una realtà decisamente più nefasta e fatiscente, dall'aspetto più grezzo e nella sua componente multietnica, dove diversi individui e diverse culture si fondono tra di loro dando vita ad una cornice sociale in cui la criminalità, il marciume e il senso di oppressione assumono le fattezze di una prigione a cielo aperto che mantiene inermi e intrappolati i personaggi che ne fanno parte.


Bravissimo Enrico Borello, qui alle prese col suo primo ruolo da protagonista in un progetto di rilievo come questo, ma i veri mattatori della pellicola sono senza dubbio Marco Giallini e la bellissima Yaki Liu, il primo attore di primo pelo che negli ultimi anni e diventato all'interno del panorama nostrano una vera e propria istituzione e che qui veste i panni di uno dei personaggi più interessanti, sfaccettati e convincenti che abbia mai portato in scena, la seconda alla sua prima esperienza cinematografica in assoluto, che da vita ad una performance sentita e viscerale che ne mette in risalto l'enorme talento, tanto dal punto di vista espressivo quanto dal punto di vista del linguaggio del corpo, ovvero ciò che contraddistingue, se non del tutto almeno in larga parte, la fibra concettuale e morale che gravità attorno al suo carattere.


I personaggi sono descritti attraverso una dose di realismo palpabile e riescono a fare breccia nell'emotivita dello spettatore proprio grazie alla loro aderenza alle dinamiche che più ci toccano da vicino, con le dovute differenze ed è incoraggiante e mirabile constatare come l'opera del regista sia una grandissima e sentitissima ode all'umanità, un atto di testimonianza e di speranza nei confronti del futuro, abile nel rendere l'incomunicabilità linguistica e culturale che mette in contrapposizione tra di loro i personaggi del film, una prova di forza, una scintilla utile al confronto e alla comprensione dell'altro, in grado di sfidare, distruggere e superare i paletti apparentemente invalicabili che si interpongono tra gli individui.


L'ultima fatica di Mainetti conquisterà il cuore di molti, ne sono certo, così come lo sono del fatto che invece, agli occhi di molti altri, scatenerà l'effetto opposto, almeno stando alle prime impressioni della critica e del pubblico che hanno preso forma in queste settimane, ma auspico fortemente che, al netto degli evidenti difetti, il coraggio, la passione, la dedizione e la perseveranza di cui si è fatto carico il regista possano non passare inosservati e ad essere invece riconosciuti come una delle più grandi prove di amore e di avanguardia si siano viste nel nostro paese e nei confronti della settima arte nell'ultimo decennio, almeno.


Stefano Berta


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