Here - Robert Zemeckis
- Stefano Berta
- 12 gen
- Tempo di lettura: 3 min

Ebbene si, dopo i passi falsi compiuti negli anni scorsi con opere qualitativamente ben al di sotto delle capacità dell'artista in questione (Le Streghe e Pinocchio ancora gridano vendetta) Robert Zemeckis torna in grande spolvero con una pellicola che non fatico ad annoverare tra i suoi migliori lavori di sempre.
Il regista, che dagli anni 80 ad oggi si è distinto nel panorama di genere con prodotti sperimentali e d'avanguardia che hanno cresciuto intere generazioni, riabbraccia appieno la propria vena poetica proponendo un film in cui utilizza una sola inquadratura fissa per tutta la sua durata, per raccontare una storia familiare che permette al tempo stesso di ripercorre, passo dopo passo, tutta la storia americana nel suo insieme, all'interno di uno storytelling che parte dell'estinzione dei dinosauri, passa per il primi periodi dell'ottocento e del novecento fino ad arrivare ai giorni nostri.
Ad avere maggior rilevanza nello sguardo d'insieme è, per ovvie ragioni, la parentesi narrativa dedicata ai personaggi di Paul Bettany e Kelly Reilly prima e di Tom Hanks (quest'ultimo figlio della coppia poc'anzi menzionata) e Robin Wright poi, che tornano a recitare insieme diretti dal regista americano trent'anni dopo la loro esperienza sul set di Forrest Gump e che rappresentano a pieno titolo il perno narrativo ed emotivo attorno a cui ruotano gli eventi, alternati a loro volta da alcune microstorie che fanno da collante concettuale e tematico nel passaggio da una sequenza all'altra.
Zemeckis ferma il tempo, lo catalizza, costringendo lo spettatore ad assumere un punto di vista specifico, uno sguardo imposto, all'interno di una cornice d'insieme che sfrutta questo immobilismo teorico per fa muovere le epoche e i personaggi che le popolano, fornendo una o più riflessioni sulla società americana e sul suo consequenziale sviluppo.
Si parla di politica, di razzismo, di lavoro, persino di covid, analizzando nel dettaglio, attraverso un gioco di incastri a livello temporale ed estetico, tutti quei passaggi che attraverso il tempo hanno portato la società americana ad essere ciò che conosciamo oggi.
E se quella che poteva rappresentare la maggior percentuale di interesse nei confronti dell'opera (ovvero la scelta di utilizzare una sola inquadratura per tutta la durata del film) poteva al tempo stesso essere la sua più grande spada di Damocle, si rivela invece l'ingrediente principale e vincente di un prodotto che sfrutta appieno il proprio espediente per raccontare ciò che si era imposto di raccontare in principio, con un Robert Zemeckis dietro la macchina da presa che si diverte a riempire l'inquadratura e i corpi in campo, attraverso soluzioni scenografiche ed estetiche che giocano con la prospettiva e con gli spazi a disposizione, al punto da farci sembrare dirette l'una in maniera diversa dall'altra tutte le sezioni narrative che si alternano sullo schermo e che si muovono consequenzialmente una dietro l'altra sostenute e impreziosite da un tappeto musicale messo in piedi da un Alan Silvestri che realizza una colonna sonora a dir poco coinvolgente (probabilmente una delle sue migliori degli ultimi anni).
Non è però soltanto uno sfoggio di muscoli e tecnica, l'ultimo lavoro di Zemeckis, quanto più un opera intima e sentita da parte di un autore che a distanza di anni torna a raccontare storie semplici e dirette, attraverso soluzioni a loro modo pionieristiche (o quantomeno peculiari) che ne hanno contraddistino la cronologica filmica dagli esordi ad oggi; una storia umana che racconta lo scorrere del tempo, la natura dell'essere umano stesso e le dinamiche sociali e culturali nelle quali è inserito, in quello che ,facendo una sintesi, risulta essere un racconto impostato con tutti i crismi, sebbene alterni momenti ispirati ed impattanti, ad altri fugacemente superficiali e appena abbozzati.
Fiondatevi in sala, combattete i pregiudizi e le stroncature oltreoceano e (distribuzione permettendo) fatevi il favore di recuperare e farvi travolgere dalla corrente emotiva e sinestetica di una delle opere più intense e delicate di un cineasta che ci ha insegnato, più di chiunque altro, cosa significhi sognare ad occhi aperti e rimanere sbalorditi.
Stefano Berta
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