A GIRL WITH THE NEEDLE – MAGNUS VON HORN
- Andrea Brena
- 12 feb
- Tempo di lettura: 3 min

La domanda che sta alla base di questa pellicola, coprodotta da Svezia, Danimarca e Polonia nel 2024, è come si possa vivere in un mondo orribile, come quello in cui è immersa la protagonista Karoline, devastato dalla Prima Guerra Mondiale in cui la miseria umana riesce sempre ad emergere prepotentemente, nonostante le mistificazioni.
Magnus Von Horn confeziona una storia che a tratti appare come una fiaba nera, nerissima se pensiamo che è ispirata a fatti realmente avvenuti. Lo fa con un magistrale bianco e nero, che incupisce, quasi come fosse un film degli anni Venti, una Copenhagen e un 1919 devastati dalla Storia e dalle sue conseguenze.
Karoline vive tra difficoltà economiche senza un marito, scomparso in guerra, lavorando come cucitrice in una fabbrica convertita alla confezione di uniformi militari. Il denaro non basta , viene sfrattata, il lavoro stesso sembra porsi come metafora di una condizione esistenziale miserabile: gli aghi si rompono continuamente nel cucire divise militari, troppo dure e rigide per macchine che dovrebbero cucire abiti in lino, così come la resistenza della protagonista e di coloro che la circondano sia ormai spezzata dalla povertà e dal cinismo di chi tenta solo di sopravvivere.
Ben presto, la donna intreccia una relazione con il ricco proprietario della fabbrica e rimane incinta. Le promesse dell'uomo, che si dichiara disposto a sposarla, si infrangono ben presto, quando la ricca famiglia dell'imprenditore non solo non accetta il matrimonio, ma la priva anche del lavoro. Ritroviamo l'ago, questa volta da maglia: un simbolo di disperazione, di una ferita terribile e dolorosa autoinflitta, il segno dell'impossibilità di vivere e di dare la vita. Abbandonati gli accessori sferruzzati a maglia, l'ago si conficca nell'utero, tenta di raschiare ogni traccia di umanità in favore della mera sopravvivenza.
Incinta, costretta alle più basse mansioni per pagare un affitto troppo caro in un appartamento fatiscente, Karoline ritrova il proprio marito, tornato dal fronte. Un uomo sfigurato, il cui viso è coperto da una maschera per non mostrare le terribili mutilazioni, che riappare improvvisamente, piegato e disposto ad accettare il figlio di un altro, che la moglie porta in grembo.
Siamo lontanissimi dal romaticismo di “Settimo Cielo” di Frank Borzage, che nel 1927 racconta il ricongiugimento dei due protagonisti come un'esperienza magica, mistica, in cui l'amore vince su tutto. Von Horn ci racconta di una donna quasi disgustata dal rigurgito bellico in cui il marito si è tramutato. Non trova conforto nella tenerezza, ma anzi lo allontana, ormai fagocitata e mutilata emotivamente dalle brutture del mondo. Partorisce una figlia e tenta di liberarsene, affidandola a Dagmar, una donna che si occupa di trovare famiglie disposte ad adottare i vergognosi figli di donne abbandonate. Una donna che l'ha salvata da quell'ago conficcato dentro, che le ha dato la speranza di poter sopravvivere senza uccidere una parte di sé. E questo si rivelerà uno snodo cruciale. Karoline vede un'opportunità, abbandona il marito e inizia a lavorare per Dagmar, allattando i bambini in attesa di essere affidati.
Da questo momento il film svolta verso una direzione molto più oscura e nebulosa. Il rapporto tra Dagmar e Karoline, l'interazione tra quest'ultima e i bambini, i sospetti, l'ambivalenza emotiva delle due donne precipitano lo spettatore in una dimensione sempre più oscura e straniante.
Von Horn non risparmia nulla, sin dall'inizio della pellicola, ma come un chirurgo ci mostra un'incisione di bisturi sulla superficie della storia narrata che diviene sempre più sconvolgente ed inquietante. Racconta le ferite dell'animo umano senza ricorrere a immagini sconvolgenti, sceglie di utilizzare un sonoro sotterraneo ed inquietante, mentre lentamente ci accompagna sull'orlo del baratro esistenziale delle protagoniste lasciandoci osservare un vuoto terrificante. Non si erge a giudice, ma lascia lo spettatore disarmato di fronte alla vastità di questo abisso.
“A girl with the Needle” è un film crudo ed elegante, scevro da ogni buonismo e da ogni considerazione morale. Nessuno è salvo dallo sguardo spietato del regista, che osserva, appuntito come un ago, le vite spezzate e le conseguenze dell'orrore prodotto dalla Storia. Senza avvalersi di sensazionalismi, rompe i tabù e le certezze rassicuranti della pantomima e del sentimentalismo, lasciandoci storditi e privi di qualsiasi bussola morale. Un cinema asciutto, tagliente e profondamente destabilizzante.
Come nei titoli di testa le sovraimpressioni dei volti protagonisti, creano un mostro collettivo, una deformità e una alterità dei tratti, il film è una sfida a ricercare l'umanità nella deformità psicologica e sociale, o viceversa a riconoscere il mostruoso in fattezze rassicuranti.
Una pellicola riuscitissima, di una bellezza straniante che lascia tracce profonde dopo la visione. Che pone la domanda esistenziale più terribile: come vivere in un mondo che si è tramutato in orrore? Una questione che è anche un ago piantato nel profondo.
Di Andrea Brena
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